Cosa ci dicono del mondo editoriale di oggi un festival musicale con poco pubblico e una serie cinese
Per un gioco di associazioni la vicenda dei boicottaggi attorno alla fiera “Più libri, più liberi” mi ha fatto pensare a due immagini. La prima non è particolarmente originale e sarà venuta in mente a molti. E’ quella delle guardie maoiste che obbligano la vittima di turno – colpevole di una qualche forma di libero pensiero – ad abiurare e indossare un cappello d’asino mentre la ricoprono di insulti e la prendono a cinghiate. Curiosamente questa è anche la prima scena della serie Netflix “Il problema dei tre corpi” tratta dai romanzi di Cixin Liu, un esempio piuttosto raffinato di propaganda cinese.
Vale la pena di spendere qualche parola su quest’opera, per capire come l’odierna propaganda cinese si differenzi in maniera sostanziale da quella occidentale più nota, ovvero quella dei film americani degli anni 80 (“Top Gun”, “Rocky IV”, eccetera). “Il problema dei tre corpi” inizia con una scena che mostra proprio un aspetto agghiacciante del comunismo cinese. Nei primi minuti viene quindi il sospetto di trovarsi di fronte ad un’opera di denuncia del totalitarismo. Andando avanti nella storia però questo sospetto si rivela un’ingenuità tipicamente occidentale. Senza svelare tutta la storia, basti qui sapere che sarà proprio la figlia dei professori di fisica umiliati e massacrati di botte nell’incipit a mettere a rischio estinzione non solo la Cina, ma l’umanità intera, disobbedendo ai saggi ordini del partito e mandando dei messaggi a una pericolosa civiltà extraterrestre. Quindi, insomma, il regime non aveva tutti i torti a trattare in quel modo i suoi genitori, e la mela non cade mai molto lontano dall’albero.
Nell’opera di propaganda filo occidentale lo schieramento dei buoni poteva vedere fra le sue fila un occasionale personaggio negativo (tipicamente il capo raccomandato o semplicemente inetto), ma nel complesso la struttura sociale rimaneva moralmente giusta e incapace per definizione di atti lesivi della dignità delle persone. Nella propaganda filo cinese, al contrario, ogni tipo di violenza, di censura e di immoralità è esplicitamente giustificata se il fine ultimo è la stabilità e la sicurezza della comunità. Se, nella narrazione occidentale, il centro è l’individuo che grazie alla sua virtù personale rende possibile una società giusta, nella narrazione cinese l’individuo è sacrificabile e il partito sa sempre cosa è meglio per tutti. L’individuo, dal canto suo, non può capire cosa sia necessario fare perché è inevitabilmente limitato. Nella narrazione occidentale ogni individuo contiene già in sé i valori e le qualità necessarie all’esistenza della società (anzi si potrebbe dire che la società stessa emerge solo grazie alle virtù individuali), in quella cinese l’individuo è al massimo un mattoncino Lego che qualcun altro disporrà a suo piacimento. “Il problema dei tre corpi” è una serie caratterizzata anche da un livello di efferatezza fuori scala rispetto ai prodotti occidentali omologhi. In uno degli episodi, ad esempio, i buoni affettano vivi dei bambini figli dei cattivi (non è un’affermazione iperbolica, succede davvero: bambini affettati vivi. Forse i sensitivity reader di Netflix, attentissimi a ogni ipotetica offesa verbale, erano fuori a fumarsi una sigaretta). Gli alieni che minacciano la terra poi sono una chiara allegoria dell’occidente: una società avanzata e potente che però ha distrutto il suo mondo per una mancanza di ordine e di equilibrio (quello fra i tre corpi celesti del titolo). La libertà di azione e di pensiero genera caos che a sua volta conduce all’estinzione.
Il vantaggio della narrazione cinese è che non nega di essere capace di terribili violenze e così facendo evita l’accusa di ipocrisia. Tuttavia l’ipocrisia è anche l’ultimo velo che separa dalla barbarie esplicita. E’ meglio un governo occidentale che occasionalmente compie il male ma è forzato dalla società civile a giustificarsi e a cercare di non ripetere l’errore in futuro, rispetto alla mano libera e feroce dell’infallibile dittatura cinese. Sfortunatamente questo non è un concetto semplice da spiegare nel mondo dei social network.
Ora, nella sua maniera esplicita, “Il problema dei tre corpi” ci mostra anche la brutta fine che hanno fatto le guardie maoiste che tormentavano la povera coppia di professori universitari nella scena iniziale. Come sempre accade, i guerrieri della purezza finiscono epurati a loro volta, e li ritroviamo in un campo di prigionia assieme a quelle che un tempo erano le loro vittime. Questo è un meccanismo a cui assistiamo continuamente anche oggi fra le schiere degli intellettuali-influencer woke, eppure non sembra mai venire compreso dai diretti interessati, il che è senza dubbio curioso. I sacerdoti del politicamente corretto – o meglio, per usare il termine di Luca Ricolfi, del “follemente corretto” – non sospettano mai che prima o poi finiranno vittime degli stessi meccanismi che hanno a lungo alimentato e nel momento della caduta assomigliano al fedele funzionario di partito che non riesce a credere di essere finito dalla parte sbagliata della barricata. Una storia lunga almeno quanto il Novecento. Questo ci dice anche come questo genere di personaggi si considerino antropologicamente diversi – e superiori – rispetto al resto della popolazione. Ed è forse questa mancata comprensione dei meccanismi in cui sono inseriti che li spinge spessissimo a chiedere scusa – ad abiurare – per colpe inesistenti, non capendo che chi chiede la loro testa non si fermerà mai di fronte a delle scuse, ma, anzi, si sentirà rinforzato nella bontà delle proprie pulsioni. Le scuse, quando non sono effettivamente dovute, sono come il sangue sciolto in acqua per lo squalo.
Si potrebbe naturalmente obiettare che mentre le persecuzioni e i milioni di morti del maoismo sono cose tragiche e serie, le polemiche attorno a una fiera editoriale sono un fatto risibile. E sicuramente c’è del vero in questo distinguo, si tratta, come ha scritto Guido Vitiello su queste pagine di una “tempesta in un bicchier d’acqua”. Ciononostante colpisce la veemenza con cui il pensiero totalitario domini ormai un ambito – quello dell’editoria – dove, in teoria, si dovrebbero creare i romanzi e saggi in grado di illuminare la condizione umana e il nostro tempo storico, un luogo, quindi, dove dovrebbero albergare spirito critico e pensiero analitico. Il contrasto fra gli scopi e gli esiti effettivi oggi è grottesco.
I libri dovrebbero servire anche per parlare di cose di cui non è possibile parlare altrimenti, i libri dovrebbero poter affrontare quanto c’è di scomodo e di oscuro nella vita umana. L’editoria odierna, al contrario, sembra sempre più simile a una gara a chi è più puro e conformista, con esiti tragicomici, come i molti comunicati stampa di annullamento che cercano di giustificare il boicottaggio verso la fiera pur ribadendo la massima stima verso gli organizzatori. Testi al di là di ogni più ovvio principio di non contraddizione. Chi legge documenti del genere non può che dubitare della bontà di tutto il catalogo dell’editore che li ha rilasciati.
La corsa al virtue signalling non produce opere rilevanti e segna una frattura sempre più profonda fra il mondo e l’oggetto libro come opportunità di indagine su di esso. L’agenda editoriale woke la conosciamo ormai tutti allo sfinimento: attenzione ad una manciata di temi, come i diritti delle donne e delle minoranze. Al di fuori di questo cono di attenzione – limitatissimo rispetto allo scibile umano e ai fatti della vita – il deserto.
Ogni epoca è meritevole di essere raccontata ma la nostra sembra essere particolarmente ricca di eventi senza precedenti: l’avanzare delle tecnologia e della scienza cambiano ogni giorno i confini dell’umano, sulla scena compaiono popoli e culture un tempo lontani, il paradigma liberale si scontra con la crescente fascinazione per le dittature, all’abbondanza materiale si affianca una radicale crisi di senso che vede il nascere e il prosperare di nuove sette religiose (come lo stesso culto woke), le narrazioni diventano ubique, il continente europeo sembra aver imboccato un inarrestabile declino nel contesto globale. E sono solo i primi esempi che mi vengono in mente, l’elenco sarebbe lunghissimo.
I dati recenti sulle vendite di libri hanno mostrato una preoccupante flessione fra i giovani lettori maschi, probabilmente però non ne avete mai sentito parlare perché questo sembra non rappresentare un problema per nessuno, ma naturalmente lo è. Provate d’altronde a entrare in una libreria oggi e contare le opere che descrivono metà della popolazione come composta di stupratori e assassini in sonno da riprogrammare culturalmente, e capirete come a un sedicenne un minimo sveglio venga la tentazione di girare al largo e dirigersi verso altri lidi, meno sessisti e discriminatori.
Ed eccomi arrivato alla seconda immagine, completamente diversa dalla prima. Primissimi anni 2000, una delle prime edizioni del Gusto Dopa al Sole, un importante evento di musica rap e black che si svolge ancora oggi. Quell’anno si teneva in una pineta poco lontano da San Foca, nel Salento, e sul palco passò buona parte della scena nazionale hip hop. A un certo punto mi resi conto di una cosa: c’era più gente sul palco e nel backstage che davanti al palco. Ebbi la chiara sensazione che la cosa non poteva durare.
E infatti non durò.
Quello di allora era un hip hop anche interessante in alcune sue manifestazioni ma autoreferenziale nelle forme e politicizzato nei temi, molto legato ad ambienti borghesi come le università e i centri sociali. Aveva pochissimo a che fare con la sua controparte americana, notoriamente popolare. Tutto cambiò quando nel 2002 uscì il film di Eminem “8 Mile” e l’onda lunga del suo successo planetario portò diversi cambiamenti anche in Italia: sulla scena apparvero gruppi come i Club Dogo, tecnicamente validi e slegati dalle tematiche precedenti e poi, nel tempo, emersero anche dei rapper effettivamente di origine popolare. Insomma, cambiò tutto e non solo le proporzioni fra persone sotto e sopra il palco si ristabilirono ma il rap italiano diventò per la prima volta un fenomeno di massa. Si può obiettare che il rap di oggi sia meno bello del rap di una volta, ma se andate a risentire i brani di quell’epoca scoprirete che non è necessariamente vero e nel mare magnum odierno si trovano anche molte cose valide, assieme ad altre fin troppo pop.
Forse avete capito dove voglio andare a parare: una buona parte dell’editoria oggi parla soltanto a una frazione di mondo estremamente ristretta, e lo fa perché utilizza un codice ideologico settario e si concentra su pochissimi argomenti, sempre gli stessi.
Si obietterà che questi però sono i libri che vendono, e pure tanto. Mi si permetta sommessamente di far notare che 50 o 100 mila copie – quando accade il mezzo miracolo, ma tipicamente qualche migliaio, se va bene, più spesso qualche centinaio – a fronte di imponenti sforzi promozionali in un paese di 60 milioni di abitanti non possono essere considerate tante. Il prezzo del settarismo è quello dell’esclusione di fasce enormi di popolazione dall’oggetto libro, uno strumento fondamentale della vita intellettuale in una democrazia, che forse anche per questo nel nostro paese appare sempre incompiuta.
Il mondo tuttavia cambia, e lo fa in fretta. Alle ultime elezioni americane i media tradizionali sono stati soppiantati dai podcast e da X, sia come numeri che come qualità dell’offerta culturale, un mondo mediatico che è sfuggito alla semplificazione manichea e ha raccontato un paese alle prese con dei problemi sistemici gravi: inflazione, immigrazione non controllata, instabilità globale, censura sui social network e in campo artistico. I media tradizionali hanno dipinto questi strumenti di comunicazione in maniera sommaria, demonizzandoli e forzandoli all’interno della contrapposizione manichea Harris Bene Vs Trump Male, anzi Hitler.
Questo è stato il motivo definitivo del successo dei nuovi media: perché una volta bucato il cordone sanitario che i media tradizionali si erano illusi di potergli stringere attorno, il grande pubblico ha scoperto che a portata di click c’erano visioni del mondo meno binarie, più articolate e soprattutto più oneste. A quel punto si è sentito tradito da quei media in cui per anni aveva riposto fiducia.
Ascoltate entrambe le campane in molti sono giunti alla conclusione che la versione dei media tradizionali era completamente inquinata dall’ideologia. In maniera significativa, negli Stati Uniti i podcast hanno svolto quella funzione problematizzante che un tempo era stata tipica dei libri, una funzione a cui anche l’editoria anglosassone pare aver abdicato per eccesso di ortodossia. L’intelligenza, insomma, trova sempre una via, anche se per farlo questa volta ha dovuto decidere di appoggiare il più improbabile dei candidati, ma il rischio di censura e di chiusura dell’universo del discorso era davvero troppo alto.
Tornando ai fatterelli del nostro mondo culturale la domanda ora è la seguente: si continuerà con la pulsione autodistruttiva, la caccia sistematica al capro espiatorio, le manifestazioni pubblicitarie di purezza – una situazione che in mancanza di un partito rivoluzionario che metta ordine assomiglia molto al mondo instabile e condannato degli alieni di Cixin Liu – oppure si tornerà a indagare la realtà e quindi a dialogare con il mondo, senza forzare ogni fenomeno umano dentro assurde gabbie ideologiche?
Se accadrà questa seconda cosa potremmo finalmente ridere, come si conviene, di ZeroCalcare che sostiene di non poter discutere di femminismo con una donna, e ricordare che in una democrazia tutti devono poter parlare di quello che preferiscono, indipendentemente dal loro sesso, dal colore della pelle o della loro presunta storia vittimaria. Insomma, i libri allora potrebbero davvero rendere più liberi, e non più conformisti come accade oggi. In questo modo, non ho dubbi, anche il pubblico tornerebbe sotto il palco.
Diversamente il testo letterario è semplicemente destinato all’estinzione e all’irrilevanza, la complessità e l’intelligenza si sposteranno altrove, libri se ne stamperanno ancora, potenzialmente anche molti, ma saranno sempre più libri di influencer, biografie, libri di cucina. La varia si mangerà tutto, e per dei buoni motivi.