“Non è detto che andando sempre avanti, poi ci si vada veramente”, il conduttore commenta la sentenza del Tar ligure contro l’esclusiva alla tv di stato. “Più del contenuto artistico, Sanremo è una tradizione nazionale. Come si fa senza Ariston? E chi glielo dice a Pippo Baudo?”
Toglieteci tutto, ma non Sanremo. “Sta cadendo ogni certezza”, sospira Piero Chiambretti al Foglio. “Il Capodanno in piazza, il Natale in famiglia, il Ferragosto in coda. L’inverno si fa primavera, i ghiacciai si sciolgono ma poi nevica in estate. L’unica cosa che ci era rimasta era Sanremo alla Rai: se verrà meno anche questa, credo che quei 10-20 milioni di italiani che lo seguono dalla nascita dovranno andare in analisi”. Psicodramma nazionale. “Per forza. Cambiare il patrocinio del Festival dopo 74 anni sarebbe un trauma: io, lavorando per la Rai, non posso che fare il tifo per la Rai. Ma lo farei in ogni caso, perché si tratta di una manifestazione talmente radicata che diventerebbe difficile digerirla altrove. Non metto in dubbio il fatto artistico: potrebbe venire anche meglio. Discuto
l’appuntamento fisso, l’abitudine e quel che rappresenta. Come si fa a stare senza il vecchio teatro Ariston? E ancora più importante: chi glielo dice a Pippo Baudo?”
Dopo il terremoto scatenato dal Tar della Liguria, il decano del Festival si è già fatto sentire: perderlo sarebbe un disastro, la definitiva espropriazione del servizio pubblico. “E dagli addetti ai lavori ai telespettatori, un’enorme crisi di identità”, gli fa eco Chiambretti, conduttore a Sanremo per tre edizioni. “Quindi come il calcetto è il santuario del fisioterapista, se mai dovesse esserci la gara per spostare il Festival credo che sarebbe la fortuna di molti psicoterapeuti. Dobbiamo mettere in conto i danni emotivi per chi guarda”.
Sa di provocazione, ma fino a un certo punto. “Questa diatriba attorno al Festival la sento sottotraccia da tanti anni: se non è in ballo la Rai è in ballo Sanremo. Ricordo di quando certi colleghi volevano trasferirlo a Venezia, e ovviamente ci fu l’alzata di scudi della giunta comunale ligure. Stavolta però c’è un giudizio legale e per questo ha una maggiore cassa di risonanza. Spero che l’allarme possa rientrare. Anche se in un momento in cui i soldi vincono su tutto – vedi i diritti del calcio – capisco che il peso del marchio possa fare la differenza. A prescindere dal valore della memoria collettiva”.
Secondo il conduttore, in ogni caso “Il Festival non farà mai la fine di Miss Italia”, nell’oblio dopo l’uscita dal palinsesto Rai. “Sanremo ha uno zoccolo talmente duro che non deve preoccuparsi di questo. Però il fascino vintage di quel luogo, indipendentemente da ristrutturazioni e ammodernamenti, resta senza eguali: compreso il suo palcoscenico, perfino piccolo per una kermesse internazionale. E l’immagine di Sanremo è ancora il suo casinò, l’aereo che ti fa vedere la città dei fiori, la polemica tra chi i fiori li vuole e chi invece no”. Un binomio inscindibile con la tv di stato. “Tutto questo non lo troveremmo più. Era una tradizione famigliare che ci siamo tramandati da nonni a padri, a figli a nipoti. Va benissimo andare avanti. Però non è detto che andando sempre avanti, in realtà ci si vada veramente”.
La prima volta di Chiambretti all’Ariston fu nel 1997, l’ultima nel 2008. Com’è cambiato il Festival nel frattempo? “Innanzitutto la musica. Poi il modo in cui si partecipa a Sanremo: all’epoca il processo era più complicato, mentre oggi basta entrare in pacchetti ben definiti tra case discografiche, manager e produttori. Inoltre percepisco una fortissima riconoscibilità e riconoscenza attorno ai cantanti di TikTok, di X-Factor, di Amici. Ed ecco che s’è fatto il cast: soltanto per non
perdere di vista i grandi del passato, ce li si infila a fatica – e spesso poi si riconfermano i più bravi dal punto di vista dell’impatto contenutistico. Il resto è una scelta molto, anche troppo, televisiva. Ma da seguire in ogni caso: per questo continuo a sostenere il vecchio nuovo Sanremo, quello che
sta per andare in onda con Carlo Conti. E i conti si fanno sempre alla fine”. Lanciando i cantanti sul palco, Chiambretti li introduceva con una celebre formula: comunque vada, sarà un successo. “È ancora così”. Finché non si tocca mamma Rai.