La forza di raccontare un’Italia che l’arcitaliano Verdi conosceva bene

In scena non la Traviata o il Rigoletto, ma “La forza del destino”. Scritture e riscritture, highlight, dicerie e interpreti ideali: il grand opéra che stasera inaugura la stagione spiegato a due voci

Prima della Scala, ci (ri)siamo. Si comincia oggi, Sant’Ambrogio, con un sempreVerdi: La forza del destino (in diretta su Rai 1 dalle 17.45). Diceva Proust che di meglio della musica c’è soltanto parlare di musica. Lo fanno qui un sottosegretario all’Economia, Federico Freni, e un giornalista, Alberto Mattioli, entrambi malati d’opera in generale e di Verdi in particolare. Duetto.


Federico Freni: Rieccoci. E anche quest’anno con il caro vecchio Verdi. Però mai, chessò, una Traviata o un Rigoletto. Anche stavolta un operone difficile, come si direbbe in certi ambienti. Due versioni, Pietroburgo 1862 e Milano 1869, che beninteso rendono la vita più semplice delle quattro del Don Carlos-Don Carlo, una drammaturgia discontinua, parti sublimi e altre meno, insomma, siamo al 7 dicembre con un’opera che tutti evitiamo di chiamare con il suo nome. Pronti?

Alberto Mattioli: L’Innominabile (vedremo poi perché il titolo non si cita mai, e semmai si sostituisce con metafore e perifrasi) merita un Sant’Ambroeus. Entriamo nel merito. Diceva Rodolfo Celletti che la ventiquattresima opera del catalogo verdiano è il grand opéra dell’Italia contadina. Che sia un grand opéra e ne abbia la struttura drammaturgica divagante, “a pannelli”, lontanissima dal ritmo incalzante e dalla concisione fulminante del Verdi “di galera” e della trilogia popolare, non c’è dubbio. E certo racconta un’Italia che Verdi conosceva bene, molto lontana da quella che si immaginavano i legislatori riuniti a Torino nel primo Parlamento italiano. Fra loro sedeva, benché controvoglia (ma Cavour aveva travolto la sua reticenza a candidarsi) anche l’onorevole Giuseppe Verdi: e proprio sui banchi di palazzo Carignano abbozzò le prime pagine dell’opera per Pietroburgo. Dietro l’incredibile concatenazione di sventure e coincidenze che travolgono Leonora e Alvaro, c’è una fotografia dell’Italia rurale, che soffre per la coscrizione obbligatoria, non ama i frati petulanti come Melitone ma ricorre ancora alla chiesa per il piatto di minestra, segue le processioni e festeggia all’osteria. Insomma, il solito Verdi come antropologo di quella curiosa popolazione, gli italiani…

FF: Una volta di più è vero che Verdi pianse e amò per tutti, incarnando nella sua musica l’Italia e gli italiani. Peraltro, la nostra è opera amatissima dal pubblico, ma spesso guardata di traverso dalla critica, perlomeno fino agli anni Settanta del secolo scorso, proprio per quella drammaturgia divagante o “a pannelli”. E tanto la si considerava un’opera minore da permettersi di deturparla, tagliando e cucendo qua e là. Insomma, dico io, se sposti l’ouverture dopo il primo atto, tagli la scena della taverna e quella della ronda, elimini il secondo duetto tra Carlo e Alvaro, ci credo che poi non ci si capisca nulla! E stiamo parlando di turpitudini perpetrate al Met o a Vienna, e da gente come Mitropoulos o Walter, non dal primo che passava. Ma, come si dice, è acqua passata. Oggi possiamo ascoltare l’opera come Verdi la scrisse. Peraltro, a differenza di Don Carlo(s), saremo d’accordo che tra le due versioni l’unica che davvero ci convince (ed è quella che ascolteremo alla Scala) è la seconda, il rifacimento milanese del ’69. In una parola, l’edizione più manzoniana!

AM: Ecco, appunto l’amatissimo Manzoni, uno dei due uomini davanti ai quali Verdi si sentiva piccino (l’altro, com’è noto, era Camillo di Cavour). Lesse per la prima volta I promessi sposi nel 1835 e li rilesse per tutta la vita: “Quello è un libro vero, vero quanto la verità”, scrive il 24 maggio 1867 a Clarina Maffei. Sono i giorni in cui appunto la contessa Maffei e la Strepponi organizzano l’incontro fra i due giganti, che si concretizzerà nella celebre visita di Verdi a Manzoni del 30 giugno 1868. Sempre Giuseppe alla Maffei: “Cosa potrei dirvi di Manzoni? Come spiegarvi la sensazione dolcissima, indefinibile, nuova, prodotta in me dalla presenza di quel Santo, come voi lo chiamate? Io mi gli sarei posto in ginocchio dinnanzi, se si potessero adorare gli uomini. Dicono che non lo si deve, e ciò sebbene veneriamo sugli altari, tanti che non hanno avuto il talento, né le virtù di Manzoni, e che anzi sono stati fior di bricconi”. La solita ambivalenza di Verdi davanti alla religione: forse ateo, sicuramente anticlericale, ma autore della Messa da Requiem scritta appunto per Manzoni, con matrimonio in chiesa e funerale religioso, insomma arcitaliano anche in questo. E che mette nell’Innominabile due religiosi antitetici: il Padre Guardiano, traboccante di solenne spiritualità e di carità cristiana, e fra’ Melitone, pettegolo, invidioso, meschino e anche un po’ razzista. Insomma, fra’ Cristoforo e don Abbondio…

FF: Verdi l’arcitaliano è un bel titolo, mi piace! I suoi melodrammi, d’altronde, sono forse, ieri come oggi, la più profonda analisi del paese, con i suoi vizi e le sue virtù. Ma torniamo alla nostra opera. Prima di capire perché sia così innominabile, dimmi qual è il tuo momento preferito. Io stravedo per il duetto Leonora-Padre Guardiano e per la preghiera alla “Vergine degli angeli” che lo conclude. Ma obiettivamente ci sono pagine splendide…

AM: Sono di certo due fra i brani più celebri di un’opera che ne ha molti, pensiamo alla Sinfonia, o all’aria del tenore. Ma ti stupirò: secondo me vanno valorizzate quelle parti che la critica ha sempre schifato, come quella di Preziosilla e il suo famigerato “Rataplan”. Fanno parte di quel romanzone popolare, quel feuilleton d’appendice che, in fin dei conti, quest’opera è.

FF: Ma il romanzo popolare italiano richiede una continua alternanza di registri e di atmosfere. Melitone e Preziosilla ne esauriscono solo una parte. Nella narrazione della nostra natura ambivalente il sacro, anzi la ricerca del sacro, ha un ruolo essenziale. E la grandezza di Verdi sta proprio nell’aver colto, in quest’opera più che altrove, questa fisiologica alternanza di sacro e profano. Che poi, se ci pensiamo, questo avvicendarsi è lo specchio della vita. Ciò detto, siamo arrivati fin qui senza nominarla, e direi che è già un successo. Io non sono così cartesiano da sfidare impunemente la sorte. Spiega tu perché continueremo a tacere il titolo esatto.

AM: E’ una storia dolentissima e funesta. La fama jettatoria nasce forse già dallo stesso libretto, che presenta una serie davvero monumentale di sciagure assortite. A partire da quella che dà origine a tutte le altre: il colpo di pistola accidentale con il quale don Alvaro uccide senza volerlo il marchese di Calatrava. Per il povero Francesco Maria Piave questo fu, ovviamente, l’ultimo libretto scritto per Verdi e l’inizio di una lunga serie di disgrazie: il fratello arrestato per alto tradimento dagli austriaci, la madre che impazzisce, e per finire l’ictus che lo condanna a vegetare. Verdi era consapevole della fama che circondava l’opera. Quando la ritoccò per la Scala, modificò molte parti, specie il finale che rispetto a Pietroburgo è assai diverso. Un solo cambiamento è inspiegabile se non per ragioni scaramantiche. A Pietroburgo, nel recitativo prima della sua aria, don Alvaro cantava: “Fallì l’impresa”. A Milano, le parole diventarono: “Fu vana impresa”, una variante che non ha alcuna ragione drammaturgica o musicale, ma è motivata solo dal fatto che tutti gli impresari che mettevano in scena l’opera giravano con le mani ben ficcate nelle tasche. E aggiungiamo pure la tragedia del 4 marzo 1960 quando, al Met di New York, il celebre baritono Leonard Warren attaccò “Morir, tremenda cosa!” e fu fulminato da un infarto. Vabbè, non insistiamo su queste tremende cose. Passiamo al consueto gioco del fantacast: inizia tu…

FF: Allestire un fantacast qui è più complesso di quanto sembri, anche perché ci sono edizioni mitiche come quella di Firenze del ’53 (Tebaldi, Del Monaco, Protti, Siepi, Barbieri) ma che, forse, oggi non sono più nelle nostre corde. Iniziamo col ribadire che l’edizione ideale deve essere integrale e come papà Verdi l’ha scritta. Oggi sembra scontato, ieri non lo era per nulla. Detto questo, vediamo il cast: direi sicuramente la Leonora della Tebaldi, cui mi lega un affetto particolare. Forse è in assoluto la mia preferita: non perfetta, ma certamente quella che ha sposato meglio la mia idea del personaggio. Non disdegno la Leonora della Caballé, meravigliosa, o quelle oggi della Netrebko e ieri della Freni. Ma la Tebaldi in questa parte… è lei! Per Alvaro credo che non saprei scegliere tra Bergonzi e il Kaufmann di una decina di anni fa. Sono due interpretazioni quasi antitetiche, ma che apprezzo entrambe. Carlo per me è Renato Bruson, più di Cappuccilli, Bastianini, Protti; un domani, se vorrà lanciarsi in ruoli più spinti, certamente Mattia Olivieri. Preziosilla dopo i fasti della Barbieri e della Simionato è un ruolo che oggi affiderei alla Berzhanskaya come fa la Scala, ma che mi sarebbe piaciuto sentire dalla Callas. Anche una Callas a fine carriera, un’incursione in una parte non sua… sai che meraviglia. Padre Guardiano per me è e resterà sempre e solo Cesare Siepi. Per Melitone dopo Bruscantini ho qualche difficoltà. Ma è pur sempre un fantacast, quindi, in sintesi: Tebaldi, Kaufmann, Bruson, Siepi, Callas, Bruscantini. Chi dirige? Ero tentato di dire Muti, che in quest’opera ha fatto meraviglie. Ma propongo invece con convinzione Thomas Schippers. Quando è morto io non ero neppure nato, ma i suoi live e la sua incisione in studio mi bastano. Dirige lui.

AM: Il fantacast è sempre difficilissimo. Per Leonora, d’accordo, la Tebaldi è vocalmente meravigliosa ma un po’ troppo placida. Dico Leontyne Price per l’opulenza vocale (fra l’altro la signora, classe 1927, è ancora felicemente fra noi). Don Alvaro, ovviamente Caruso. Troppo indietro? Pavarotti studiò l’opera, con il debutto già fissato al Met, ma era già nella fase in cui non riusciva più a imparare una parte a orecchio, peccato. Altrimenti, Bergonzi. Per don Carlo, un baritonone degli anni Trenta. E’ un personaggio monodimensionale in cui c’è solo da cantare, quindi rifacciamoci le orecchie con Stracciari, Danise, Galeffi o Tagliabue (già nell’integrale diretta da Marinuzzi). Per il basso, un organo umano tipo Tancredi Pasero o Nicolai Ghiaurov. Fra’ Melitone non può che essere Sesto Bruscantini, concordo, e per Preziosilla mi piacerebbe un’ex Carmen che non ha più l’età per fare des choses ma è rimasta a bazzicare l’accampamento dei dragoni d’Alcalà, quindi benissimo la Callas. Per il direttore, mi spiace che l’opera non sia mai stata incisa da Claudio Abbado. Oggi mi piacerebbe che lo facesse Michele Mariotti. Ciò detto, in bocca al lupo alla Scala.

FF: E viva Verdi!

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