Nel suo nuovo libro, David Bidussa sottolinea come sete di libertà sia il tratto comune dei grandi personaggi della cultura. Un’allergia al fanatismo distante dalla condizione di orfanità di pensiero attuale. Pensare stanca, ma ne vale la pena
A cosa servono gli intellettuali? E soprattutto, a cosa servono gli intellettuali oggi? Hanno ancora i mezzi per avere un ruolo efficace nella società? Un modo per cercare di rispondere a queste domande eterne – ma allo stesso tempo specifiche del nostro tempo – è andare a guardare al ruolo di alcuni intellettuali del Novecento, e accorgerci se le sfide poste nel Ventesimo secolo sono diverse da quelle che ci siamo posti all’inizio del Ventunesimo. E anche se alla fine di tutto ci restano in mano più risposte o più domande. A portare avanti questo processo ci ha pensato lo storico David Bidussa nel libro “Pensare stanca” (Feltrinelli). Sulla copertina, esemplificativo, un Albert Camus che sembra sorridere tenendosi una mano sul volto in uno degli uffici della rivista Nrf, e che sembra dire: “Chi me l’ha fatto fare, di pensare”. Ci sarebbero mille modi per parlare di questo libro di Bidussa, che è denso come sono densi gli affreschi rinascimentali, dove al posto di simbologie e richiami ai precursori abbiamo citazioni da sottolineare a penna e bibliografie da aggiungere compulsivamente al carrello Amazon.
Ma un modo forse utile per leggere il libro – più utile di altri in questo periodo di allarmi sulle democrazie in pericolo, da Trump all’est Europa – è quello di leggere il tratto comune delle figure che Bidussa esplora, da Walter Benjamin ad Amos Oz, e cioè quello della sete di libertà che contraddistingue il vero intellettuale, l’allergia al fanatismo. Non è più tempo di essere ospiti dei tiranni, il pensatore può lavorare senza padroni, il pensatore può diventare bandiera di libertà politica. L’intellettuale è quindi colui che pensando cerca di fare la differenza nella realtà. Siccome gli intellettuali Bidussa se gli è masticati ben bene negli anni, a suon di prefazioni e curatele e studi attenti, qui ha districato la sua costellazione accademica riportandoci all’essenziale delle menti influenti per capire cosa sia questa libertà di cui parliamo tanto. Senza cedere in facili wikipedizzazioni, l’autore ci fa trovare faccia a faccia con Hannah Arendt, Simone Weil, Victor Serge, Ignazio Silone, Furio Jesi, Nicola Chiaromonte. Persone che a un certo punto, anche nel percorso personale e non solo filosofico, hanno dovuto scegliere tra la parresia e la sopravvivenza (fisica e professionale). Persone per cui idee e vita combaciano. L’opposizione prima alle destre nazionaliste e poi la critica allo stalinismo, al sistema di oppressione sovietico che ha allontanato le migliori menti della sinistra dai partiti comunisti europei, sono una chiave per capire cosa vuol dire essere intellettuali (l’antistalinismo emerge come la vera sofferta patente di libertà per i pensatori della gauche, spesso costretti dai capipartito a sottostare all’accettazione delle purghe).
Oggi viviamo in una “condizione di orfanità di pensiero”, scrive Bidussa, in un tempo “al massimo capace di esprimere ‘stelline’ o intellettuali autoriferiti che si autopromuovono, ma non inquietudine”. Per citare Susan Sontag, nel 1937 Hemingway, Orwell, Malraux, Weil partirono per la Spagna col fucile in spagna, adesso invece sembra esserci un “fallimento di coscienza”. Con il crollo del Muro si pensava di arrivare a un futuro senza barriere e, dice Bidussa, “alcuni si sono convinti che non fosse più necessario sognare, ma solo vivere”. Forse alla fine, “la dimensione dell’intellettuale è quella di un ragionevole pessimismo”, soprattutto nell’èra “post-ideologica” dove è difficile sia essere i “dissidenti impegnati” del primo Novecento che i guardiani della libertà del secondo. Ma nonostante questo, anche se pensare stanca, “ne vale la pena”.