Per il Tar della Liguria il comune, dal 2026, non potrà più assegnare direttamente il Festival alla Rai ma dovrà fare una gara pubblica. È l’occasione per traslocare in un luogo più adatto a un grande spettacolo televisivo. Torino, dicono tutti, sarebbe la candidata ideale
“Siamo già in grado, in qualsiasi momento, di fare un altro Festival della canzone che non sia a Sanremo. Lo siamo dal punto di vista tecnico, logistico ed economico”. Queste parole consegnate riservatamente al Foglio sono dei massimi vertici della Rai. E si riferiscono a un’ipotesi improbabile, forse impossibile, chissà, eppure resa adesso pensabile dalla sentenza con la quale un Tar, quello della Liguria, giovedì ha stabilito che il comune di Sanremo, dal 2026, non potrà più assegnare direttamente il Festival alla Rai ma dovrà fare una gara pubblica. Aperta anche ad altri organizzatori-broadcaster tv. Sanremo potrebbe dunque anche andare a Mediaset, a Discovery o persino su una piattaforma streaming tipo Amazon Prime.
Il sindaco di Sanremo, Alessandro Mager, primo cittadino di questo paesone che vive sostanzialmente del Festival, intervistato ieri dal Corriere della Sera ha avuto una reazione raggiante alla notizia della sentenza del Tar: “Sarebbe più comodo continuare con la Rai, perché ormai la macchina è rodata, ma se la legge dice che si deve cambiare, noi cambieremo”. A Sanremo, non da oggi, cercano di spremere la Rai. Soldi. E questa vicenda, per un comune che ha sviluppato un rapporto del tutto passivo-parassitario nei confronti del Festival (zero investimenti: la massima ambizione, anche della camera di commercio sanremese è quella di vendere qualche panino e Coca-Cola in più) è una grande occasione per spremere un altro po’ la kermesse.
In realtà, tuttavia, se si tende l’orecchio al mondo discografico, alla parte più dinamica, industriale e moderna della faccenda che da anni ripete “la città di Sanremo è un freno alla crescita del Festival della canzone”, si capisce che l’occasione è ghiotta. Ma non per la città di Sanremo. Bensì per l’intero sistema della canzone italiana. Potrebbe essere l’occasione per traslocare il Festival in un luogo più adatto a un grande spettacolo televisivo. Ed è quello che adesso, messa un po’ alle strette, dice anche la dirigenza della Rai. “Siamo legati a Sanremo, come tutti gli italiani, per ragioni storiche e romantiche. Che vanno rispettate. Ma la Rai ha la competenza, gli uomini e i mezzi per fare un Festival della canzone altrove”. La Rai, tanto per dire, ha i suoi grandi centri di produzione a Roma, a Milano, a Napoli e a Torino. Luoghi molto più adatti dell’angusto teatro Ariston di Sanremo per ospitare uno spettacolo televisivo che si è fatto enorme e richiede spazi, abbondanza di luci, telecamere con operatore e telecamere remote, droni da interno, ampiezza di pubblico, acustica adatta, più di un palco e più di un retropalco. Torino, dicono tutti, sarebbe la candidata ideale. Sanremo, d’altra parte – basta chiedere ai discografici – è persino incapace di ricevere gli artisti nei suoi alberghi. Che sono pochi, vecchi e scomodi. Come andrà a finire? Difficile dirlo.
La sentenza del Tar sarà sottoposta alla revisione di un secondo grado di giudizio. E qualora fosse confermata, si aprirebbero tutti gli scenari ipotetici. Di sicuro c’è la volontà, manifestata ormai apertamente dalla Rai di tenersi il Festival. Che sia a Sanremo o che sia altrove. Con un rischio, ovviamente (o forse una opportunità, dipende dai punti di vista) per il sistema discografico e dello spettacolo italiano: che si arrivi nel 2026 ad avere due Festival della canzone. Uno trasmesso dalla televisione degli italiani, la Rai. E l’altro trasmesso da un broadcaster privato che ha pagato di più il comune di Sanremo e i proprietari monopolisti del teatro Ariston.