Il regime si arrende nella provincia di Daraa, a Palmira ed è quasi sconfitto a Homs. Abbattuta una statua di Hafez Assad a Jaramana, dove si canta “libertà, libertà”. Erdogan: “Saranno i siriani a decidere il proprio futuro”
In meno di dieci giorni i ribelli sono entrati a Damasco. A Jaramana, quartiere druso nella periferia sud della capitale della Siria, una statua di Hafez al Assad, padre di Bashar e capostipite del regime alawita, è stata abbattuta. Siamo a poca distanza da Sayyda Zainab, uno dei luoghi più sacri per gli sciiti, perché è qui che sarebbe sepolta una nipote del Profeta Maometto.
Questo luogo, meta di pellegrinaggi da parte dei fedeli sciiti, è diventato negli ultimi anni anche uno dei quartieri generali dei pasdaran, che qui hanno stabilito molte residenze e luoghi di comando. Proprio alcune ore prima che i ribelli entrasseo a Jaramana, un video mostrava decine di militari iraniani chiusi della moschea di Sayyda Zainab mentre si preparavano a difendersi.
Non è questa l’unico risvolto che somiglia a uno strano scherzo del destino per il regime di Assad in queste ore che sembrano condurre inesorabili alla caduta del regime di Assad. Più a ovest, migliaia di persone che scandivano “hurrya! hurrya!”, che in arabo significa libertà, sono scese per le strade di Moadamyeh, altro quartiere della periferia della città e poco distante dall’aeroporto internazionale di Mezzeh. Molti provengono dal sud, dalla provincia di Daraa, dove sono bastate poche ore ai gruppi ribelli per conquistare il capoluogo, e poi Suwayyda e Darayya, cinque chilometri dalla capitale.
Molti dei ribelli che ora entrano trionfanti a Damasco – e qui sta il gioco della sorte – erano gli stessi che nel 2018 accettarono una tregua con il regime e mediata dai russi. Per placare i gruppi armati della provincia meridionale, una delle più organizzate della rivoluzione siriana, i russi portarono a firmare un “accordo di riconciliazione”, che prevedeva il ritorno del governo centrale, un’amnistia per i ribelli che accettavano di deporre le armi, l’esilio nel nord-ovest di coloro che non accettarono di arrendersi e il ritiro da Daraa delle milizie iraniane. L’accordo sapeva ben poco di “riconciliazione” e gli ultimi giorni di guerra in Siria stanno qui a certificarlo: gli iraniani non si sono mai ritirati dal sud, i ribelli del sud che avevano deciso di accettare l’accordo ora sono a Damasco e puntano al Palazzo presidenziale, mentre quelli cacciati nel nord-ovest si sono organizzati e avanzano verso sud. Su quel fronte, l’offensiva a Homs prosegue e le ultime forze del regime rimaste in difesa della città sembrano ormai vicine alla resa.
Anche a est, la morsa dei ribelli si è spinta fino alla conquista di un altro luogo simbolo della Siria putiniana e assadista, Palmira. Solo nel 2016 i russi organizzarono nell’anfiteatro delle rovine dell’antica civilità della regina Zeinoba un concerto celebrativo, dal forte impatto propagandisco, dove si esibì l’orchestra sinfonica di Mosca per festeggiare la vittoria sullo Stato islamico. Da stamattina, la città è sotto il controllo dell’Esercito libero siriano – una della miriade di milizie della ribellione armata siriana, rimaste divise per anni ma che negli ultimi giorni agiscono con il medesimo obiettivo: cacciare Assad da Damasco.
Mentre non si hanno notizie di Assad, che però sembra sia ancora a Damasco, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan è tornato a parlare stamattina, per benedire nuovamente l’avanzata dei ribelli: “La Siria appartiene ai siriani, con tutte le loro diversità etniche e religiose. Saranno loro, i siriani, a decidere il proprio futuro”.