I ritiri, la pace e il filo nero che lega le donne afghane cancellate e la difesa di Kyiv

La stanchezza per una guerra lunga, la volontà di trovare vie d’uscita sbrigative: questi erano i sentimenti prevalenti nell’opinione pubblica e in molti leader riguardo all’Afghanistan. Lo abbiamo visto anche in Siria e ora in Ucraina. Così si trascura il principio cardine della convivenza liberale, che non ha a che fare con i governi, ma con la salvezza dei popoli

Bisogna fare la pace in Ucraina e in medio oriente, bisogna mettere fine ai conflitti, far tacere le armi: stanchezza e pacifismo si sono saldati, un po’ come anni fa s’impose la logica del ritiro dalle guerre in corso, soprattutto in Afghanistan e in Iraq. Ritirare le truppe era quasi sinonimo di fare la pace. Oggi ne vediamo gli effetti: in Afghanistan il regime talebano, tornato velocemente al potere dopo il ritiro americano negoziato da Donald Trump e implementato in modo catastrofico da Joe Biden, cerca riconoscimenti internazionali (e talvolta li trova, come a Pechino) e intanto impone agli afghani la sua legge invero poco pacifica, e s’accanisce con metà della sua popolazione, quella femminile, che viene cancellata dalla società. Habib Khan, fondatore dell’Afghan Peace Watch, scrive su X: “Per i talebani, una donna istruita significa una donna che non crescerà figli che diventeranno talebani. Una donna istruita minaccia il loro controllo patriarcale e la loro ideologia. Detto semplice: una donna istruita è la più grave minaccia al futuro dei talebani”. La stanchezza per una guerra lunga, la volontà di trovare vie d’uscita sbrigative – questi erano i sentimenti prevalenti nell’opinione pubblica e in molti leader allora, e lo sono anche oggi – hanno trascurato il principio cardine della convivenza liberale, che non ha a che fare con i governi, ma con la salvezza dei popoli.

Nella Siria all’improvviso tornata in cima alle notizie dopo l’assalto ad Aleppo e a Hama da parte di gruppi jihadisti contrari al regime di Bashar el Assad, ha prevalso la stessa teoria della stanchezza, mista alla dottrina del realismo. S’erano già fatti troppi danni in Iraq, si diceva nel 2013 e nel 2014, quando il regime siriano usava le armi chimiche contro il suo stesso popolo, non ci possiamo permettere un’altra guerra, altri boots on the ground, cerchiamo vie diplomatiche di risoluzione del conflitto. Così oggi il 90 per cento dei siriani vive sotto la soglia di povertà, più del 50 per cento dei siriani è stato sfollato, circa il 75 per cento ha bisogno ogni giorno di assistenza, i fondi della comunità internazionale sono finanziati per meno del 30 per cento, e – beffa assoluta – molti governi, come quello italiano che ha aperto un’ambasciata a Damasco, credono che la guerra si sia stabilizzata, che i migranti arrivati in Europa possono essere in qualche modo rimpatriati, ignorando il fatto che la ragione della fuga di massa non erano soltanto le bombe (chiodate peraltro: la brutalità assadista, con quella russa e iraniana, è stata ben meno stigmatizzata rispetto a quella dei talebani, ma non è inferiore), ma il regime stesso – che c’è ancora ed è stato normalizzato dalla diplomazia internazionale.

Per l’Afghanistan si parla – giustamente – del ritiro catastrofico delle truppe americane organizzato da Biden (pur omettendo spesso che fu Trump a negoziare con i talebani, uno dei suoi vantati deal) e si dice – giustamente – che quella resa è stata una vergogna per l’occidente e un motore per Vladimir Putin, che s’è convinto che l’occidente non avrebbe mosso un dito per aiutare l’Ucraina e dopo qualche mese l’ha invasa, ma l’immobilismo in Siria è stato determinato dalle stesse premesse: la stanchezza, la voglia di fare la pace purchessia, l’illusione colpevole che un accordo con un regime sia affidabile come quello con un paese democratico, la mania di congelare i conflitti e di considerarli così mezzi risolti, o stabilizzati.

Eppure la questione è ben semplice: se non si ha voglia di combattere le guerre che minacciano la tenuta dell’ordine liberale, poi si perde. I talebani tornano al potere e la Siria diventa una base militare per russi e iraniani, che la utilizzano per fare poi altre guerre, incuranti degli interessi occidentali o degli accordi presi con gli occidentali. E, non serve dirlo, incuranti dei popoli che governano, dei loro diritti, del loro futuro ma nemmeno della loro sopravvivenza quotidiana.

La stanchezza nei confronti della guerra russa contro l’Ucraina, la fatigue come la chiamiamo per farla sembrare più accettabile, c’è ormai da più di un anno: è il secondo inverno che gli ucraini si difendono dalla brutalità russa con la consapevolezza che bisogna salvare il salvabile, perché l’occidente – che deve soltanto stanziare soldi nei Parlamenti e intanto investire nella sua macchina bellica che significa anche posti di lavoro – è affaticato. Le armi devono tacere, dicono i pacifisti, quindi non vanno più consegnate agli ucraini, che si sono ingegnati a costruirsele da soli perché i russi non hanno alleati recalcitranti o pacifisti o stanchi, e attaccano brutali come sempre, anzi di più. Bisogna correre verso la pace, mettere fine al conflitto, dicono gli stanchi (malevoli pure, perché insinuano che gli ucraini, e in particolare Volodymyr Zelensky, vogliono che la guerra vada avanti, incontentabili e isterici), mettendosi davanti una mappa e dicendo che se i russi si fermano dove sono, può andare bene. Un altro conflitto congelato, come quello che l’Ucraina ha vissuto dal 2014 al 2022, quando gli accordi di Minsk mai applicati avevano cancellato il fatto che si combattesse ancora (13 mila morti) e che i russi occupassero con la loro violenza genocidaria territori ucraini. Un’altra stabilizzazione di quelle che ignorano cosa voglia dire vivere sotto un regime, dover rinunciare a diritti, libertà, identità, essere deportati, anche arruolati per andare a combattere contro altri ucraini. Un’altra illusione di pace o di ritiro, per assecondare una stanchezza che s’indigna poi se le donne afghane vengono cancellate, se i siriani non hanno di che sopravvivere e scappano, se gli ucraini combattono per difenderci tutti, ché Putin non s’accontenta certo di congelare una guerra che vuole vincere a tutti i costi, implacabile.

  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d’amore – corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d’amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l’Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell’Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi

Leave a comment

Your email address will not be published.