Le chance di una “pace fredda e illiberale” di Trump in medio oriente

Il ritorno dell’ex presidente potrebbe segnare un’era di compromessi: dalla legittimazione di potenze autoritarie in Europa e Asia alla tregua tra Israele e Hamas, con il ruolo chiave di Bin Salman. Parla il direttore del National Security Studies Center dell’Università di Haifa

Tel Aviv. “Forse quella che otterrà sarà una ‘pace fredda’, ma si tratta pur sempre di pace”, dice al Foglio Benny Miller, docente di Relazioni internazionali e direttore del National Security Studies Center presso l’Università di Haifa, riguardo al ruolo del futuro presidente degli Stati Uniti Donald Trump nei diversi conflitti in corso e alla luce del recente cessate il fuoco tra Israele e Libano. Nel corso della sua campagna elettorale il neoeletto presidente americano ha più volte sottolineato il periodo di relativa pace che ha prevalso durante il suo primo mandato – dal 2017 al 2021 – rispetto ai numerosi conflitti esplosi sotto il suo successore Joe Biden. E ricorda come questi conflitti coinvolgono l’intero occidente liberale ma, soprattutto, gli Stati Uniti che, fino a oggi, si sono sempre schierati dalla parte di democrazie (Ucraina, Israele, Taiwan e Filippine) aggredite da attori palesemente antiliberali (Russia, Cina, Iran e i suoi alleati). Miller ricorda che il sostegno della Casa Bianca alle democrazie in pericolo rappresenta un continuum delle guerre “liberali” che il paese ha condotto fin dall’apice della sua egemonia in occidente. E ricorda come Trump si sia opposto con veemenza all’escalation dei conflitti emersi nell’ultimo decennio e come la minaccia di sospendere gli aiuti agli alleati significherebbe, di fatto, porre fine alla guerra in Europa. Ma questo potrebbe anche implicare, verosimilmente, l’accettazione da parte dell’Ucraina di gran parte delle condizioni poste da Vladimir Putin, in cambio di una “pace” nel Vecchio continente.

Si tratterebbe dunque, come sottolinea Miller, di una pace “illiberale”, perché comporterebbe la legittimazione di un leader autoritario che ha invaso un paese vicino e violato la norma del rispetto dell’integrità territoriale, decretando anche una nuova sfera di influenza russa in Europa: “Una pace illiberale come questa, se legittimata, potrebbe prevalere anche nella geopolitica dell’Asia orientale, qualora Trump non si impegnasse a proteggere paesi democratici come Filippine e Taiwan, e se questi venissero costretti ad accettare i dettami dalla Cina che sta già stabilendo una forte sfera di influenza nella regione. Tuttavia – continua il docente – è lo stesso modello di ‘pace illiberale’ che potrebbe ripristinare un ordine in medio oriente se il neopresidente, convalidando il nuovo assetto egemonico promosso dai paesi del Golfo, garantisse ai palestinesi il riconoscimento di un loro stato. Un compromesso che, stando ai precedenti Accordi di Abramo, implicherebbe il sacrificio di una parte considerevole dei Territori – laddove già si trovano insediamenti ebraici – e che potrebbe dover implicare anche la legittimazione di avamposti israeliani a nord della Striscia. In cambio, come compensazione, di una parte del territorio israeliano del Negev.”

Secondo Miller, solo una normalizzazione saudita-israeliana e una supervisione di Gaza da parte di forze appartenenti ai paesi del Golfo potrebbe portare a una soluzione diplomatica e duratura della questione palestinese e ricorda come Trump, durante il suo scorso mandato – proprio con l’avviamento degli Accordi di Abramo – abbia già proposto una soluzione a due stati in cui quello palestinese avrebbe ricevuto circa l’ottanta per cento dei territori della Cisgiordania, l’intera Striscia di Gaza e la cosiddetta compensazione territoriale.

Riconosce anche come, da entrambe le parti, si tratterebbe di un compromesso significativo, finora mai ottenuto. Questa volta però, sostiene Miller – anche a causa del recente mandato di arresto da parte della Corte penale internazionale – il primo ministro Benjamin Netanyahu potrebbe trovarsi costretto ad accettare ogni tipo di condizione postagli da Trump, pur di riacquistare quella libertà che, a questo punto, solo il presidente degli Stati Uniti potrebbe concedergli, minacciando i paesi che appartengono al la Cpi di far a meno della copertura, per loro indispensabile, della Nato.

Altra figura cruciale, secondo il professore, al fine di raggiungere questo compromesso storico, sarebbe il principe ereditario saudita Mohammad Bin Salman, grazie al cui sostegno questa “pace fredda” potrebbe prevalere nella regione e ridisegnarne gli equilibri del medio oriente, per lo meno sul breve periodo. La grande domanda da porsi – commenta l’analista – è se questa ‘pace illiberale’ possa rivelarsi duratura anche sul lungo periodo o se, da pace fredda – e quindi irrisolta nella sua essenza – potrebbe trasformarsi, in un secondo momento, in una guerra calda. Che, tuttavia – osserva – è quella già in corso oggi. Per questo, conclude Miller, se la fine di questi conflitti fosse accompagnata da un’accurata soluzione diplomatica internazionale, e soddisfacesse la maggior parte delle aspirazioni riguardanti l’autodeterminazione delle parti implicate, questo particolare momento storico potrebbe risultare un punto di svolta per una pace stabile e duratura, su scala globale.

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