L’ossessione per il nero, la violenza reale che le risulta insopportabile, il progetto su Callas e la nuova mostra. “Ho sempre recitato, fin da piccola. Ho trovato nell’arte e nel teatro l’appiglio necessario per andare avanti”
La migliore definizione di Marina Abramovic´, la performance/conceptual artist più celebrata, criticata e richiesta al mondo, ce la offre Lia Rumma, grande gallerista e mecenate campana che vanta una scuderia di artisti come Anselm Kiefer, Alberto Burri, Michelangelo Pistoletto, Enrico Castellani, Vanessa Beecroft, Ettore Spalletti e molti altri. “In quella lista c’è anche la mia cara amica Marina, un’artista a tutto tondo, una che con le sue opere è riuscita a sfidare il corpo e la mente non esprimendo mai ciò che vede, ma solo ciò che pensa, con grande forza e coraggio. Per questo, più che di arte, nel suo caso sarebbe più corretto parlare di teatralità in tutte le sue forme”. Lo conferma lei stessa: “La teatralità ha sempre fatto parte di me, anche quando non me ne rendevo conto. Ero nella mia stanzetta da bambina e recitavo”, precisa quando la incontriamo a Milano, protagonista nello spazio gresart671 di Bergamo fino al 16 febbraio del 2025 con la mostra “between Breath and Fire” curata da Karol Winiarczyk, una riflessione sulla grandezza, la solitudine, il mito, la caducità dell’essere umano che parte dal progetto cinematografico “Seven deaths”, dedicato qualche anno fa a Maria Callas.
“Ho basato tutto il mio lavoro sulla ricerca sul corpo, a partire proprio dai rituali dove l’ho sottoposto a prove durissime e a incisioni dolorose, ma l’obiettivo, alla fine, è stato sempre quello di aumentare il controllo e il potere che si ha su di lui. Questo non si fa anche a teatro? Con Ulay (il suo storico ex compagno scomparso nel 2020, protagonista di molte sue performance, ndr) ci siamo amati tantissimo, ma durante un nostro lavoro insieme ci siamo schiaffeggiati lasciandoci lividi blu sul volto. La nostra non era una violenza, ma solo una maniera per testare i limiti fisici e mentali. La realtà però, è un’altra cosa e quella odierna è agghiacciante. Quando vedo una notizia di guerra e di violenza al telegiornale, la prima cosa che faccio è cambiare canale. Al cinema come a teatro, invece, morte e tortura sono un’altra cosa, perché vengono rappresentate in un modo estetico ed emotivo che ti coinvolge e che ti porta a guardare. Oggi siamo dei voyeuristi/esibizionisti che non vogliono più vedere la realtà, perché è troppo dura e a ben vedere non ce la meritiamo. Resistere e pensare sempre positivo possono dare un aiuto, perché dipende sempre da noi, dalla nostra forza di volontà che parte dalla mente e che è sempre più forte del corpo”.
Di forza lei si intende eccome e continua a dimostrarlo. Ogni volta che l’abbiamo incontrata in città lontane e diverse – da Venezia a New York, da Firenze a Londra, da Roma a Napoli fino a Pesaro – Marina Abramović ci ha sempre detto di essere una persona in movimento e piena di energie, “o almeno così pensavo”. “Il 22 aprile del 2023”, racconta al “Foglio della Moda”, mi è venuta una grave embolia polmonare. Quel pomeriggio sarei dovuta essere a Copenaghen per ricevere il Sonning Prize, ma non riuscivo a respirare bene. Venni portata di corsa in ospedale e messa in terapia intensiva dopo tre interventi chirurgici e otto trasfusioni. Il dolore è stato incredibile. Se fossi salita su quell’aereo, oggi non sarei qui a raccontarlo. È stata l’esperienza più difficile della mia vita. Ho avuto paura di morire, ma la voglia che ho di vivere ha vinto anche stavolta”, dice. “La mia forza si è unita alla forza del destino”, sottolinea, anticipando di voler assistere quanto prima a una rappresentazione del melodramma verdiano che inaugura la nuova Stagione del Teatro alla Scala di Milano: “Un’opera con una musica potente e drammatica. Il teatro, di strada come il vero palcoscenico, è stata ed è la mia vita”. Una vita simile, per alcuni aspetti, a quella di Maria Callas, a cui ha dedicato un omaggio con l’installazione cinematografica “Seven deaths”, la messa in opera di sette finali di altrettante opere famosissime interpretate da Callas, nelle quali la protagonista femminile incontra la morte, ogni volta in modo diverso ma sempre profondamente drammatico. In tutte, da Madama Butterfly a Traviata a Carmen, è accompagnata dalle parole dell’attore Willem Dafoe: nell’ultima, l’ottava, mette in scena se stessa “Da quando sono piccola, la Callas è diventata la mia ossessione. Ascoltai la sua voce per la prima volta alla radio e fu mia nonna a dirmi chi fosse. La ascoltavo e piangevo. Ci somigliamo fisicamente ed entrambe siamo nate sotto il segno del Sagittario da madri forti che ci hanno rubato l’infanzia”. La sua dirigeva il Museo dell’Arte e della Rivoluzione di Belgrado e non era mai a casa.
“Aveva la mania del controllo e l’ossessione per le pulizie. Non mi permetteva di essere libera in nessun modo. Capisco perché mio padre, interessato solo alla politica e alle relazioni extra coniugali, ci abbandonò. Se andò via”, continua, “fu anche per colpa sua. Non la sopportava più. Mia madre mentiva su tutto, mentì persino sul mio compleanno. Mi disse che ero nata il 29 novembre, l’anniversario della Repubblica Federativa Popolare di Yugoslavia, quando i bambini nati ricevevano caramelle da Tito. Io non le ho mai ricevute. Come mai? Le chiesi. ‘Perché sei una bambina cattiva’, mi rispose. Scoprii dopo di essere nata il 30 novembre. Quando morì, dopo una lunga malattia, scoprii cose che non mi aveva mai rivelato quando era viva, come la raccolta meticolosa della mia rassegna stampa. Fu il suo modo per dirmi che mi amava. Nel farlo, però, ritagliò tutte le immagini in cui comparivo nuda così da poterle mostrare ai suoi amici senza doversi vergognare. È stata comunque una donna coraggiosa con una forza immensa, come mio padre del resto, un uomo malato che non prese mai gli anti dolorifici. Diceva che erano indecenti”. Beve tè, dà un senso a tutti i suoi gesti, è vestita di nero, il suo colore preferito, “perché rappresenta un’assenza di distrazioni”.
Indossava una gonna nera anche in un’altra performance (“Rest Energy”) dove sempre il suo storico ex Ulay le puntava un arco e una freccia al cuore. Con lui si vestì di nero in più di una performance e in “Relation in time” (1976) erano neri anche i loro capelli lunghi, legati tra loro fino a formare un corpo solo e confondersi in uno scambio di generi. “Maschio, femmina, altro: cosa importa? A me è sempre interessata e mi interessa l’umanità in tutte e con tutte le sue forme, colori, differenze, brutture e bellezze. L’importante è stare bene con sé stessi e ricordarsi che la nostra libertà finisce dove inizia quella di un altro. Amo il nero anche per questo: esprime un non genere, ma in realtà, poiché raccoglie tutti i colori, li esprime tutti. È più potente di un arcobaleno”. Di nero, Marina ha preferito negli anni quello di Yohji Yamamoto o quello di Givenchy quando c’era Riccardo Tisci, l’unico riuscì a farle indossare al Glastonbury Festival un abito bianco che riproduceva il simbolo della Pace e che divenne subito, inevitabilmente, iconico. Qui a Milano, durante le ultime sfilate di settembre, ha dimostrato di continuare ad amarlo sedendo in prima fila da Fendi, Prada, MM6, Jil Sander e Ferragamo. Da Versace è arrivata con un cappotto con bottoni di colore rosso, “lo stesso colore del rossetto che indosso, simbolo di un mondo in frantumi che mi auguro migliori”, precisa. Rossa è anche la copertina rigida del bel catalogo “A visual biography” pubblicato da Laurence King Publication in occasione della sua ultima grande mostra che dalla Royal Academy of Arts di Londra, lo scorso febbraio si è spostata fino all’estate allo Stedelijk Museum di Amsterdam, per poi arrivare a Zurigo, Tel Aviv e infine a Vienna. Una doppia maniera per raccontarsi integralmente attraverso le sue opere, tra le foto e le performance più conosciute. “Ho trascorso la mia carriera esponendomi di fronte al pubblico. Sono come uno specchio: (di)mostro che se riesco a sopportare il mio dolore, anche gli altri potranno farlo. Nel privato, è diverso: non sopporto il dolore fisico che è un muro straziante e insopportabile. Solo chi riesce a superarlo, giunge a un diverso stato di consapevolezza e a un’illimitata e nuova forma di energia. Superare gli ostacoli di cui si aveva paura è fantastico”.
Come ha fatto? Le chiediamo. Scoprendo e lavorando sulla mia felicità, un’esperienza del tutto nuova che ho provato proprio dopo la malattia e il periodo del Covid. Riscoprire ciò che conta davvero. Bere una tazza di tè come questa ad esempio, leggendo il giornale, passare più tempo con la persona che si ama, chiamare un amico che non si sentiva da tempo, lavorando seriamente senza mai dimenticare il sense of humour. Come a teatro, anche nella vita ci vuole metodo, ma proprio come a teatro, a differenza di quello che si possa pensare, non conta l’improvvisazione, ma un lungo lavoro di preparazione. Io sono stata a contatto con culture diverse, ho praticato diverse tecniche di meditazione che portano il corpo a uno stato di confine, di limite, che rende capaci di un salto mentale per raggiungere dimensioni diverse dell’esistenza ed eliminare la paura ed il dolore o le limitazioni del corpo”. Il suo, il Metodo Abramović, è volto ad aiutare sé stessa e gli altri e a ricentrarsi nel presente, a lungo e in modo sano. Comprende una linea di prodotti di bellezza, sviluppati con una luminare della medicina alternativa, Nonna Brenner, comprendono una lozione per il viso che oltre agli oli essenziali e all’acido ialuronico contiene pane e vino bianco, bulbo di aglio fresco e semi d’uva.
Coraggioso chi li proverà, e al momento (sono in commercio da un anno, costano in media trecento euro) non sembra siano in molti. “Nonna vuole farmi vivere 110 anni. Le artiste vengono prese sul serio dopo i 100 quindi, se ce la faccio, forse finalmente inizieranno a prendermi sul serio. Il nostro cervello va dove lo portiamo noi: alcune volte è bellissimo, altre un disastro, ma è così. Non ne può più, questo è certo, di seguire gli algoritmi di potenti computer e l’Intelligenza Artificiale. La tecnologia è democratica: posso apparire da un museo, ma anche dal mio letto, ma la cosa importante è preservare la performance, che è poi la forma d’arte che preferita dai giovani, perché permette loro di di toccare, guardare e interagire. È arrivato però il momento di trovare idee alternative sui musei”. Quali? Le chiediamo prima di salutarci. “Appena le troverò, sarete i primi a saperlo”. “Mi lasci però aggiungere una cosa”. Ci mancherebbe. “Ognuno trova un appiglio necessario per andare avanti. Io l’ho trovato nell’arte e nel teatro, le vie d’uscita dalla mia famiglia e, più tardi, dal mio Paese, ma soprattutto in mia nonna Milica, alle tante ore passate in cucina con lei tra i profumi del cibo, i racconti, le favole, gli insegnamenti, le parole, i sussurri, le grida, l’affetto e quell’insostenibile bisogno di essere considerati a prescindere da cosa si faccia o si è. L’importante è ottenerlo. Poi ci pensa la vita a sistemare tutto”.