La base dell’inchiesta della procura di Udine per omicidio colposo è molto debole: i vigili del fuoco sono intervenuti e hanno tentato di salvare i ragazzi, ma la forza della corrente ha impedito ai loro sforzi di riuscirci
La procura di Udine indaga, come responsabili dell’annegamento di tre giovani nel Natisone, i responsabili della sala operativa dei vigili del fuoco e un infermiere del numero unico di emergenza. Il reato è grave, omicidio colposo, ma la base dell’inchiesta appare invece debolissima. Si parte dall’idea che chi riceve una chiamata di emergenza sia in grado di identificare con chiarezza la situazione reale di chi l’inoltra, il che è ovviamente impossibile. Ci si domanda se l’azione penale, formalmente “obbligatoria” di fronte a una notizia di reato, sia tanto estensibile da coprire anche indagini di questo tipo. Quella che non sembra affatto evidente, anzi appare assai aleatoria, è la notizia di reato.
C’è stata una tragedia, i vigili del fuoco sono intervenuti e hanno tentato di salvare i ragazzi, ma la forza della corrente ha impedito ai loro sforzi di riuscirci. Si vedrà nelle fasi successive della procedura se l’inchiesta andrà avanti o si fermerà per evidente insussistenza di indizi, ma a questo punto è lecito domandarsi in che modo e con quale estensione è applicabile il principio, già di per sé discutibile, dell’obbligatorietà dell’azione penale. Il principio aveva all’origine la funzione di evitare che non si intervenisse su reati sottovalutati dagli inquirenti, ora è diventato il suo contrario, un pretesto per perseguire reati inesistenti anche sulla base di indizi privi di una base dotata di un minimo di consistenza. Servirebbe un senso del limite da parte dei magistrati, per evitare di mettere in piedi procedimenti dai piedi d’argilla, che finiscono con l’accrescere la sfiducia nella giustizia e in come viene amministrata, ma forse, in assenza di questo senso del limite, sarebbe necessaria una precisazione da parte del legislatore sull’obbligo dell’azione penale.