Carlos Tavares, la caduta del primo alfiere dell’automotive europeo

Continuano le scosse di assestamento a seguito delle dimissioni dell’amministratore delegato di Stellantis. Ma prima di capire come il gruppo riuscirà ad affrontare le sfide del futuro, occorre domandarsi quale sarà il suo lascito nel mondo dell’auto. Sia in Italia che in Ue

Questa è “Divergenze Parallele”, la rubrica curata da Lorenzo Borga. Ogni settimana ospitiamo due opinioni opposte, ma informate, su un tema chiave per capire la quotidianità. Perché – fuori dal mondo dei talk show e dei social – sugli argomenti di scontro si possono confrontare ragioni diverse, legittime e immuni da bufale.


Le dimissioni di Carlos Tavares da Stellantis continuano a provocare scosse di assestamento. È il primo alfiere a cadere nello scacchiere dell’automotive europeo. E prima di cercare un sostituto, il gruppo automobilistico deve affrontare un esame di coscienza sulla propria strategia industriale. A farlo con noi sono Carlo Alberto Carnevale Maffè, professore presso la Sda Bocconi, e Marco Bentivogli, già sindacalista metalmeccanico e ora coordinatore di Base Italia.



Quale giudizio merita l’operato di Carlos Tavares? Le sue dimissioni segnano il fallimento del suo mandato a capo di Stellantis?


Carlo Alberto Carnevale Maffè–Non trovo giusto mettere in croce Tavares. Cosa ha fatto di diverso dagli altri? Tavares ha fatto efficientamento, ha alzato i prezzi in America, ha guardato al breve periodo sperando in un cambio di politica industriale. Nel frattempo ha puntato a fare un accordo con i cinesi e a vendere le loro auto in Europa. Ma quella strada non ha portato da nessuna parte. E senza questa carta vincente Stellantis ha sofferto degli stessi problemi di Volkswagen. Chiaramente ha tirato troppo la corda sul prezzo, soprattutto in America. Solo le decisioni commerciali di Tavares, se vogliamo dirlo, sono state discutibili. Certo, c’è anche chi ha fatto scelte differenti: guarda Luca De Meo che con Renault ha puntato sulla coda estrema dei motori termici con Dacia, che sta vendendo bene. Come anche sull’elettrico in cui ha messo sul mercato modelli a prezzi accettabili.


Marco Bentivogli Affermare – che non ci sia un problema Stellantis è fuorviante. Il gruppo italo-francese è andato peggio degli altri carmaker europei. Non solo in Italia, non solo in Europa, ma anche negli Stati Uniti. Tavares non ha presentato un piano industriale credibile, né ha aperto un tavolo con i sindacati. L’unico momento di confronto è stata l’audizione in Parlamento, che ha dedicato più all’intrattenimento che alla presentazione di una vera e propria strategia. Si è concentrato sulla riduzione dei costi, senza innovare sufficientemente le vetture. E ha avuto polso poco fermo sulla strategia europea: per un periodo ha difeso la fine dei motori endotermici entro il 2035, poi ha cambiato idea; prima ha detto che i cinesi sono i rivali, poi ha firmato la partnership con Leapmotor. Anche se a Tavares va riconosciuto un’unica grande attenuante: dal 2019 in poi tutti i Governi italiani sono stati completamente disinteressati alla fusione e alla nascita di Stellantis.


Il compenso ricevuto da Tavares nel 2023 di oltre 36 milioni di euro è stato giustificato o appesantisce il giudizio sul suo lavoro?


CA – Per me è stato meritatissimo e giustificato dai numeri. Dopo di che l’avrei invece penalizzato per l’assenza di strategia. Però posso dire: quale strategia alternativa avrebbe potuto adottare? Non ce ne sono! Tavares ha avuto poche colpe, voglio proprio vedere chi avrebbe potuto fare meglio.


MB– Marchionne destò scandalo perché guadagnava tra i 6 e i 7 milioni di euro, molti meno di Tavares a fronte di risultati assolutamente deludenti. Cifre completamente scollegate ai risultati del gruppo. Una volta il movimento operaio chiedeva che i salari fossero una variabile indipendente, cioè che i lavoratori prendessero lo stipendio sia che l’azienda andasse bene sia che andasse male. Oggi questo assunto vale ormai solo per i top manager.



Nel dibattito è spesso mancato un contributo forte dei sindacati su Stellantis. Cosa avrebbero potuto fare di diverso?


CA –I sindacati non hanno avuto un ruolo perché non c’è stato un conflitto industriale. Non puoi scioperare contro il mercato o contro il regolatore. Se non c’è domanda per i tuoi prodotti, non può esserci alcun conflitto tra capitale e salari. Il sindacato anzi deve farsi alcune domande: ha fatto abbastanza per far comprendere alla politica le necessità del settore? Ha spiegato come si può gestire la transizione energetica? Scioperare contro Tavares, o contro la Volkswagen in Germania, è stato un atto di assoluta irrilevanza economica. Oggi non c’è un tema salariale – gli operai dell’automotive europeo sono i più pagati al mondo – né occupazionale, visto che la disoccupazione è ai minimi. Cosa fai, lo sciopero contro il mercato e la tecnologia?


MB– Siamo un Paese che guardava a Marchionne come il diavolo dato che, in un momento in cui il mercato dell’auto si era assolutamente contratto, condizionò gli investimenti industriali agli accordi sindacali. E dal punto di vista mediatico serviva dipingerlo come lo sceriffo di Nottingham mentre dall’altra si ergeva un Robin Hood. In questa fase invece la vicenda è passata sottotraccia, di Stellantis si è parlato pochissimo fino a oggi. Eppure dal 2021, da quando è nato il gruppo, ha perso più di 12.000 dipendenti in Italia.



A questo punto è necessario riaprire il dibattito sul termine del 2035 alla vendita di motori endotermici?


CA– Ciò che è stato fatto fino a ora è da dilettanti allo sbaraglio. I calendari delle scadenze europee sono stati scritti senza una simulazione di scenario. E intanto l’Europa è completamente priva dell’ecosistema per l’elettrificazione. Prima di tutto manca la stessa l’elettricità a buon mercato, visto che costa il doppio che negli Stati Uniti. Secondo abbiamo le reti elettriche più vecchie del mondo. Terzo mancano le colonnine. Quarto il sistema di pagamento per le ricariche è iperframmentato e non funzionale. Se guardiamo al prodotto, le nostre batterie costano il doppio. Non abbiamo la proprietà intellettuale del software, le terre rare e le materie prime le controlla la Cina. Siamo sul prodotto sbagliato, sul mercato sbagliato, con le infrastrutture sbagliate. E di fronte alla sovrapproduzione cinese, rischiamo di importare tre milioni di auto da Pechino. Significherebbe mandare a casa decine di migliaia di operai. Cosa deve fare la politica? Deve disegnare un ecosistema della mobilità, non dell’automobile, coerente con il sistema europeo e i suoi valori. Non spostare le scadenze e aumentare i sussidi.


MB – Non mi sono appassionato mai ai dibattiti sul traguardo. Per me lo stop nel 2035 va mantenuto, non è questo il tema. Il problema è invece cosa facciamo prima: l’Europa doveva giustamente fissare un traguardo sulle emissioni, ma contemporaneamente doveva costruire, o quantomeno agevolare, una strategia industriale. Quello che invece accade è che l’Italia in primis, ma l’Europa tutta, non sta costruendo nulla di ciò che serve all’elettrificazione. Parliamo di infrastruttura, le colonnine, ma anche di tutto ciò che serve nell’ecosistema dell’elettrico: dalla sensoristica, ai semiconduttori, dall’infotainment alla batteria. Il Governo ha definanziato il fondo automotive per 4,6 miliardi di euro, li ha dirottati altrove perché non avrebbe saputo come spenderli.

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