Un cristianesimo senza spinta soprannaturale è solo sentimenti e imposizioni

La Chiesa deve fornire la “bussola con la quale le persone di buona volontà possano orientarsi in tempi di confusione”, non correre dietro alla folla. Il divino non può essere ridotto alla nostra misura. Un libro

Pubblichiamo un estratto di “Castità. La riconciliazione dei sensi”, il volume di mons. Erik Varden da oggi in libreria (San Paolo, 228 pp., 20 euro). Mons. Varden, nato nel 1974, è monaco cistercense. Nel 2019 è stato nominato vescovo di Trondheim e dal 2023 è amministratore apostolico di Tromsø, in Norvegia.


Una volta scomparsa la spinta soprannaturale dal cristianesimo, che cosa resta? Un sentimento ben intenzionato e una serie di comandamenti ritenuti schiaccianti, poiché la finalità del cambiamento a cui avrebbero dovuto servire è stata sommariamente respinta.



Comprensibilmente, sarà allora in corso un movimento per consegnarli agli archivi. Infatti, quale sarà il loro scopo? Divenuta mondana, la Chiesa fa spazio al mondo e si mette ragionevolmente a proprio agio al suo interno. Le sue prescrizioni e le sue proscrizioni rifletteranno e saranno modellate dai mores attuali. Ciò richiede una flessibilità continua, poiché i mores della società secolare cambiano rapidamente, anche nell’ambito della riflessione liberale sul sesso. Certi punti di vista proposti come liberatori e profetici a memoria d’uomo – riguardanti, per esempio, la sessualità dei bambini – sono ora giustamente considerati ripugnanti. Eppure, nuovi profeti vengono prontamente unti, vengono proposte nuove teorie da sperimentare in un’area che ci tocca nel modo più intimo.



E’ tempo di attuare un Sursum corda, di correggere una tendenza interiorizzante e orizzontalizzante, per recuperare la dimensione trascendentale dell’intimità incarnata, parte integrante della chiamata universale alla santità. Naturalmente dovremmo raggiungere e coinvolgere coloro che sono estranei all’insegnamento cristiano, coloro che si sentono ostracizzati o ritengono di essere chiamati a rispettare uno standard impossibile. Allo stesso tempo non possiamo dimenticare che questa situazione è tutt’altro che nuova.



Nei primi secoli della nostra epoca vi era una tensione fortissima tra i valori morali mondani e quelli cristiani, non ultimo quello relativo alla castità. Ciò non accadeva perché i cristiani fossero migliori – la maggior parte di noi, oggi come allora, vive una vita mediocre – ma perché avevano un senso diverso di che cosa significhi la vita. Erano i secoli delle sottili controversie cristologiche. Instancabilmente, la Chiesa ha lottato per esprimere chi è Gesù Cristo: “Dio da Dio”, eppure “nacque da Maria Vergine”; pienamente umano, pienamente divino. Su questa base la Chiesa ha continuato a dare un senso a che cosa significhi essere umani e a mostrare come potrebbe realizzarsi un ordine sociale umano. Oggi la cristologia è al tramonto. Affermiamo ancora che Dio “si è fatto uomo”, ma utilizziamo in gran parte un’ermeneutica invertita, proiettando un’immagine di “Dio” che scaturisce dal nostro senso fisico di ciò che è l’uomo. Il risultato è caricaturale. Il divino è ridotto alla nostra misura. Il fatto che molti contemporanei rifiutino questo “Dio” contraffatto è per molti aspetti indice del loro buon senso.



Che contrasto con i tempi passati. Nicolas Cabasilas, che visse al tempo di Walter Hilton e Giuliana di Norwich, scrive: “In principio Dio ha creato la natura dell’uomo in vista dell’uomo nuovo: mente e desiderio sono stati foggiati in funzione di lui. Per conoscere il Cristo abbiamo ricevuto il pensiero, per correre verso di lui il desiderio, e la memoria per portarlo in noi; perché mentre eravamo plasmati era lui l’archetipo: infatti non il vecchio Adamo è modello del nuovo, ma il nuovo è modello del vecchio”.

Nelle perplessità del presente, con la Chiesa appesantita da una storia di abusi, con la decostruzione da parte della società di categorie che, proprio ieri, ritenevamo normative, e non mancando persone che, come i contemporanei di Isaia, “cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre, che cambiano l’amaro in dolce e il dolce in amaro” (Is 5,20), dobbiamo essere richiamati a questa prospettiva. Il motto più breve dei Padri del deserto ci dice di “guardare in alto, non in basso”. Il consiglio è valido. Sicuramente la Chiesa è chiamata a fornire la bussola con la quale le persone di buona volontà possano orientarsi in tempi di confusione, non a correre dietro alla folla come un vecchio spaniel sbuffante che cerca di tenere il passo con la caccia.

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