Non è un caso se Meloni non ha detto una parola sul caso Unicredit

Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa

Al direttore – Le canzoni del prossimo Festival di Sanremo, ha annunciato Carlo Conti, non parleranno di immigrazione e guerra, ma di famiglia. Sono curioso di sentire di quale famiglia.

Michele Magno


Al direttore – Il fatto che venga prospettato dal Giancarlo Giorgetti, l’esame dell’applicabilità all’eventuale aggregazione Unicredit-Bpm della normativa sul golden power non dovrebbe fare scandalo. Poi è assai probabile che si dovrà concludere per la non ricorrenza dei presupposti per fare scattare le misure del golden power, a partire dalla coerenza con la tutela della sicurezza nazionale. Ma ciò si ritiene richieda un esame anche per la peculiarità di un intermediario italiano con un ampio azionariato non italiano qual è Unicredit. Difficile dire che se ne potrebbe fare a meno. Ciò che, invece, non va bene è agitare l’esame in questione come un’oggettiva forma di pressione, aumentandosi così il novero dei possibili boomerang e delle contraddizioni con una condotta, uguale a quella dei casi criticati, tenuta anche da parte di esponenti del governo. Il modo peggiore, decisamente masochistico per difendere una causa che potrebbe pur avere diversi fattori a sostegno.

Angelo De Mattia

Curiosità: è solo un caso che Giorgia Meloni non abbia detto una parola sul caso Unicredit o forse Giorgia Meloni l’operazione Unicredit pur non condividendola l’ha compresa più di Giorgetti avendo chiaro in testa cosa potrebbe significare per un governo dal passato sovranista avere un gioiellino come Banco Bpm nelle mani di una banca francese, come Crédit Agricole, piuttosto che nelle mani di una banca italiana, come Unicredit? Chissà.


Al direttore – La Basilicata è senz’acqua e di conseguenza anche la Puglia, che dalla lucana diga del Camastra prende gran parte delle risorse idriche. Jacopo Giliberto su queste pagine ha ben spiegato che l’aggiornamento delle regole sulla sicurezza delle dighe ha portato a svuotare uno dei laghi artificiali che dissetavano quasi trenta comuni lucani, ora rimasti a secco, oltre che tutto l’Acquedotto pugliese. Ma per la partecipata regionale del Tavoliere, da sempre amministrata da politici locali – che il governo proprio ieri con un emendamento ha affidato al pubblico fino al 2056, evitando la messa a gara – è colpa del cambiamento climatico. Questo è il messaggio che Acquedotto pugliese ha inviato a tutti i contribuenti: “Le nostre fonti si stanno riducendo a causa del cambiamento climatico e della scarsità di precipitazioni. Ogni cittadino deve fare la propria parte riducendo gli sprechi e utilizzando l’acqua in modo responsabile”. Come se le salate eccedenze in bolletta non fossero già da monito. Eppure se per la Basilicata le perdite idriche lungo le condotte toccano il record del 65 per cento, quelle pugliesi arrivano al 45. La regione Puglia ha una diga, quella del Pappadai, costata 250 milioni, pronta da venti anni ma mai messa in funzione. Il consorzio pugliese che gestisce l’acqua per l’agricoltura, anche questo come l’acquedotto da sempre gestito da politici locali, ha accumulato un debito di 160 milioni. Qui nessuno nega che il cambiamento climatico ha conseguenze sui rischi idrogeologici, ma ogni causalità, non solo a fini processuali, ha bisogno di essere dimostrata non confondendola con la correlazione. Dire, come ha fatto l’Acquedotto pugliese, che “a causa del cambiamento climatico e delle scarse piogge l’acqua a disposizione della nostra regione è poca”, non è corretto e affida ai cittadini tutte le responsabilità sul da farsi. Una gestione e una comunicazione più attente, magari scevre da propaganda politica, non avrebbero mancato di riferire le perdite della rete e del sistema. Come magari una gestione privatistica del servizio, non affidata ai politici, lo renderebbe più efficiente senza far ricadere tutte le colpe sui cittadini contribuenti che oltre a usufruire dell’acqua la pagano anche.

Annarita Digiorgio

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