Il tratto incantevole del suo modo di vivere, di passeggiare in montagna, di stare presso il mare, di lavorare ai propri studi immerso nel suo mondo sociale fra le sue allergie psicologiche. Una riserva umanistica senza il quale il tempo delle generazioni si svuota di significato
Un corpo esile, un’espressione sorridente e sincera, un senso dell’umorismo sicuro e moderato, il lavoro ben fatto come una fissazione, il giudizio su di sé e sugli altri filtrato da un’immensa eroica modestia, persona di sentimenti amabili e misteriosi, di strenua e sorvegliata amicizia, Giovanni Sabbatucci è stato per tutti l’incarnazione della delicatezza. Per delicatezza, invece di perderla alla Rimbaud, si è guadagnato una bella vita in prosa, di ottanta anni compiuti lo scorso mese di agosto.
Storico della migliore scuola di equanimità e sapienza (Renzo De Felice), manualista eccellente per una o più generazioni di scolari (con Andrea Giardina e Vittorio Vidotto) ha fatto ricerca, didattica e saggistica memorabile (aggettivo che non avrebbe mai adoperato né per sé né per altri) intorno al fascismo al trasformismo al socialismo a ogni risvolto del Novecento italiano, concedendosi al giornalismo come editorialista e rubrichista e analista politico non imbrancato e indipendente per principio. Si è ritirato per malattia da qualche anno, ed è morto ieri nella sua casa in Prati, a Roma. Il tratto incantevole del suo modo di vivere, di passeggiare in montagna, di stare presso il mare, di lavorare ai suoi studi, di frequentare l’orizzonte romano di una comunità coesa, è stato il senso dell’equilibrio, l’idea che una proporzione esatta sia l’idolo unico a cui sacrificare il gioco dell’intelletto, senza eccezioni comunque motivate.
Studiando l’Italia contemporanea e l’Europa, il movimento una volta detto operaio, le ramificazioni culturali del regime fascista, aveva imparato la crisi delle ideologie prima del loro tramonto, per disciplina morale, per così dire, per stile spassionato, per ironia personale. Era uno studioso e un uomo di sinistra, immerso nel suo mondo sociale e nelle sue allergie psicologiche, un tipico intellettuale iperurbano nel senso anche di Woody Allen, ed era aperto a tutto con la misura della curiosità e dell’interesse, spostandosi in treno per i luoghi di lavoro e in motorino per le vie di Roma. Le sue osservazioni, spesso precise, nette, non ambiziose ma sicurissime di sé in una sospensione di giudizio benevola, comprensiva di tutto, sopravanzavano di gran lunga le sue passioni, che erano riservate e forti, ma inespresse per scelta scettica e razionale, uno di quei trucchi che le filosofie ellenistiche suggerivano per dare un senso piano alla vita e alla storia come passaggio dell’essere, non come parabola epica.
Giovanni Sabbatucci era considerato una riserva umanistica delle scienze storiche, un amatore di panchine e banchi universitari che faceva squadra ma fino a un certo punto, conversatore e conferenziere di talento ma anche parco di sentenziosità e di conclusioni adamantine dalla tribuna, una posizione ponderata e saggia di sapienza repubblicana, era il professore buono, come con lui un Luciano Cafagna, suo amico e omologo, quello che sa perché capisce e capisce perché sapeva già. L’Italia di persone così aveva e ha bisogno, che lo sappia o no, che lo accetti o no, perché l’equilibrio e la delicatezza di tratto, lo scrupolo nel racconto dei fatti così come sono realmente accaduti, ecco cose anacronistiche senza le quali il tempo delle generazioni si svuota di significato mentre, perduto e un po’ infame, luccica del suo nulla.