In Italia le è appena stato dedicato un volume dei Meridiani Mondadori ed è stata ora tradotta da Laura Serra per Salani una nuova corposa biografia: “La vita segreta di Agatha Christie” dell’inglese Lucy Worsley
“Sono sicura che dieci anni dopo la mia morte, nessuno si ricorderà il mio nome”. Era il 1948 e Agatha Christie ribadiva un’idea di sé modesta e riduttiva che sfoggiava sempre in pubblico, ma che risultava in contrasto con la sicurezza che aveva nei propri mezzi e con le battaglie che intraprendeva quando editori o teatranti non rispettavano le sue scelte narrative. L’estate del ‘48, poi, fu l’anno di un record, la casa editrice Penguin tirò centomila copie di ognuno di dieci suoi romanzi, vale a dire un milione di copie nello stesso giorno. Ed è solo uno dei tanti primati che doveva raggiungere in vita. E anche successivamente, visto che ancora oggi è un autore vitalissimo e costantemente ristampato in tutto il mondo. Da noi le è appena stato dedicato un volume dei Meridiani Mondadori (“E’ venuto il momento di cominciare a prendere sul serio questa scrittrice”, scrive nell’introduzione il curatore Antonio Moresco) ed è stata ora tradotta (da Laura Serra per Salani) una nuova corposa biografia, La vita segreta di Agatha Christie dell’inglese Lucy Worsley il cui titolo originale, di due anni fa, suona meno scandalistico e più vicino al vero: Agatha Christie. A very elusive woman, perché, sì, colpisce del suo carattere un aspetto elusivo, sfuggente, un po’ mistificatore fino all’aperta e irrealistica svalutazione di sé che dicevamo.
Sarà stata questa ribadita autosvalutazione – “sono una casalinga”, amava ripetere nelle interviste e scrivere nei documenti – o il fatto che si è dedicata quasi esclusivamente al genere giallo, o il suo successo commerciale strepitoso a relegarla, nella sensibilità di tanti per non parlare della critica, fra gli scrittori di serie B? Molti dei suoi contemporanei non furono teneri con lei. La sua praticamente coetanea Virginia Woolf, sempre attenta alla scrittura femminile e nata nel 1882 mentre Agatha otto anni dopo, non l’ha mai presa in considerazione. Evelyn Waugh definì senza mezzi termini il romanzo Poirot si annoia “una boiata”, intendendo disprezzarne in realtà l’intera opera. Ma fermiamoci qui registrando, non senza sorpresa, che un autore esigente e letterario come Moresco abbia fortemente voluto il Meridiano e sostenga che Christie sia “nello stesso tempo convenzionale ed estrema, realistica e mitico-fiabesca, esistenzialista e metafisica”, addirittura “una pensatrice… che mentre ci intrattiene ci dice anche qualcosa di profondo sulle nostre vite e sul mondo”.
Aveva cominciato a scrivere per scommessa (con la sorella Madge) e solitudine (“il motivo per cui cominciai a scrivere era di evitare di dover parlare con la gente”). Al contrario della sorella, di dodici anni più grande di lei e considerata la più brillante della famiglia (c’era pure un fratello, secondogenito e scrittore fallito, Monty), Agatha godeva fama di “tarda” e disordinata, ma era comunque amatissima. Aveva un carattere timido che la isolava pur se primeggiava in diversi sport come surf, nuoto, tennis e pattini a rotelle. Così si chiudeva in se stessa e inventava storie e personaggi immaginari mettendosi presto a scrivere racconti che fu Madge a inviare a Vanity Fair per farli pubblicare e raggranellare qualche sterlina. Perché lei mai ci avrebbe pensato, considerandosi fin da piccola una qualunque, nemmeno bella probabilmente. Eppure era atletica e slanciata, con una massa di riccioli biondi, gli occhi grigi e la pelle chiara e delicata. Arrivò da grande all’altezza di un metro e settantadue diventando una donna decisamente matronale per il grande seno e la tendenza a ingrassare. Non sarebbe mai riuscita, infatti, a tenere a freno la passione per la buona cucina e in particolare per la panna.
Comunque sia, vuoi che fosse la sua invincibile tendenza a minimizzare o – come sostiene Antonio Moresco nel Meridiano – una fortissima propensione per la “recita” che attribuisce anche ai suoi personaggi, Christie tende a dare di se stessa un’immagine risolta, poco problematica, piatta, che ha finito con l’influenzare persino i suoi numerosissimi e innamorati lettori. La sua autobiografia, La mia vita (in italiano in edizione Mondadori) pubblicata subito dopo la morte nel 1976, comincia con queste parole consolatorie: “Una delle cose più belle che possano toccare a una persona è un’infanzia felice. La mia lo è stata molto”. Strano, perché aveva solo undici anni, quando perdendo l’adorato padre aveva perduto improvvisamente la vita agiata che aveva fatto fin lì, la sicurezza economica, la stabilità e il senso di protezione che le dava il grande amore fra i genitori, la villa signorile in cui avevano da sempre abitato, e aveva cominciato a essere visitata dal fantasma della sofferenza della madre, Clara, cui fu per tutta la vita legatissima. Non si può nemmeno dire che, nonostante il grande successo dei suoi libri, la sua sia stata un’esistenza al riparo da altre profonde sofferenze.
Per diversi aspetti, forse, questa tendenza alla recita, ad apparire in pubblico profondamente diversa da come era o si sentiva nella realtà, è la chiave del suo genio poliziesco. Perché la sua stessa personalità è un enigma da risolvere, un puzzle da ricomporre. Si è fatto sempre molto rumore, per esempio, su una sua improvvisa sparizione. Era il 3 dicembre del 1926. Aveva trentasei anni ed era già famosissima. Il primo romanzo, di sei anni prima, Poirot a Styles Court, aveva avuto un immediato successo internazionale, prima di tutto in America, rimbalzato in Gran Bretagna e poi in altri paesi europei. Da allora si mise a produrre circa un libro l’anno con il solito atteggiamento non artistico, ma puramente economico. E intanto e in precedenza si era innamorata pazzamente di un uomo alto, biondo e sexy, ballerino provetto come lei, Archibald Christie, pilota della Grande guerra, la prima. Lo sposò durante una licenza: lui aveva venticinque anni, lei uno di meno e si era impegnata come crocerossina accumulando esperienza di corpi umani e soprattutto grande competenza coi veleni che poi avrebbe abbondantemente usato nei romanzi.
Archie descriveva spiritosamente così la moglie: “Amante degli animali fatta eccezione per vermi e maggiolini. Amante degli esseri umani, fatta eccezione (per principio) per i mariti. Abbonda in intelligenza e gusto artistico. Anticonformista e curiosa di tutto”. Avevano anche una forte intesa sessuale, ma questo Archie non può ammetterlo pubblicamente. E forse non era facile per un uomo di quegli anni, eroe di guerra e senz’altro un maschio Alfa come si direbbe oggi, accettare una donna che dietro l’apparenza sottomessa era decisamente indipendente, sessualmente disinibita, persino troppo intelligente, decisionista e molto più in vista di lui. Fatto sta che alla fine di quel fatale 1926, anno in cui Agatha in aprile aveva perduto l’adoratissima Clara, viene a galla un tradimento del marito, e il tradimento oltretutto presto si rivela essere una relazione per lui irrinunciabile. Non resta che separarsi, per volere di Archibald, non di Agatha pronta al perdono. Oltretutto lui, appena possibile, cioè ottenuto il divorzio, sposerà la nuova compagna.
Così la sera del 3 di dicembre 1926, dopo aver dato un bacio alla figlioletta Rosalind sotto gli occhi dell’insostituibile bambinaia-segretaria Carlotta, detta Carlo, e un altro bacio al carissimo cane Peter, Agatha Christie, invece di andare a letto, semplicemente prende la macchina e sparisce. La polizia la cerca per giorni dappertutto, e la cercano stuoli di ammiratori sotto l’eccitatissima pressione dei giornali. A un certo punto si trova la Morris incagliata fuoristrada in una siepe. Dentro alcuni oggetti personali: la pelliccia, la borsa, alcuni documenti. Lei avrebbe poi detto in un’intervista: “Avevo in testa la vaga idea di farla finita”. Ma come? Buttandosi in un fiume? “Mi sono detta che so nuotare troppo bene per affogare”.
E perciò rinuncia al suicidio e semplicemente se ne va in un grande albergo di quelli che le piacciono tanto, dove a dimostrare che non doveva essere molto in sé c’è l’indizio del falso nome che dà: quello della rivale! Non ricordava più di essere Agatha Christie? Nel romanzo Ritratto incompiuto pubblicato nel 1934 sotto lo pseudonimo Mary Westmacott, che usava per i romanzi rosa e in generale i non polizieschi, si legge: “Doveva ricordare il proprio nome… Incespicò vicino a un fossato. Il fossato era pieno d’acqua. Si poteva morire annegati, nell’acqua. Annegarsi era senz’altro meglio che impiccarsi. Se ti sdraiavi nell’acqua… Oh, com’era fredda! No, non poteva, non poteva”. Che non si fosse uccisa, come tanti temevano, era certo il collega e ammiratore Arthur Conan Doyle, l’inventore di Sherlock Holmes, che si occupava di spiritismo e aveva interpellato una medium. Agatha era viva e vegeta, aveva decretato la medium, ma dove si trovasse non era possibile stabilirlo. Probabilmente del suo vero nome tornò a ricordarsi quando ancora si stava riprendendo in quell’albergo, perché quando dopo pochi giorni la ritrovarono, grazie alla denuncia di qualcuno che l’aveva riconosciuta, riprese tranquillamente il suo posto nella vita pubblica e privata. E glissò sempre su ciò che le era davvero accaduto. Un giallo nel giallo.
Dopo di che non restava per consolarsi che farsi un bel viaggio, altra sua grande passione. Magari sul mitico Orient Express che sarebbe diventato nel ’34 il teatro di uno dei suoi gialli più famosi, Assassinio sull’Orient Express, più volte trasposto cinematograficamente da grandi registi, da Sidney Lumet a Kennet Branagh. Il detective era sempre il buffo Hercule Poirot, anche se dal 1930 era comparsa un’improbabile investigatrice, miss Jane Marple, la sfaccendata e pettegola vecchietta, femminista inconsapevole, con l’hobby del giardinaggio, hobby che le permette di spiare il vicinato senza dare nell’occhio.
Ma quel treno leggendario rappresenta anche per Christie la svolta più fortunata della sua vita sentimentale, perché le riaccende un’antica passione archeologica durante la visita agli scavi nell’antica città di Ur, in Iraq, dove tornerà una seconda volta nel 1930 e incontrerà l’uomo del destino, il più giovane Max Mallowan, laureato a Oxford e membro della squadra di archeologi che scava a Ur. Lei ha quarant’anni, lui ventisei, ma è subito grande amore pur nell’evidente differenza dei caratteri e dell’età. Si sposano nel settembre dello stesso anno e, come nelle fiabe, “vissero felici e contenti per tutta la vita”. Lei con lui realizzò il desiderio sempre vivo di viaggiare e lui con lei poté finalmente godere della sicurezza economica per realizzare al meglio le proprie ambizioni di archeologo. Stabilì un ottimo rapporto anche con la figlia di Agatha e Archie, Rosalind, rimasta a vivere con la madre, e l’unico scacco della coppia fu non riuscire ad avere un figlio loro. Ma Max le restò sempre vicino, anche quando, tanto più vecchia di lui e affetta da una pesante forma di artrosi, fu costretta in sedia a rotelle. Né l’artrosi né una forma leggera di demenza senile, subentrata negli ultimi anni, le impedirono comunque di scrivere finché ebbe respiro. In Sipario, l’ultima avventura di Poirot, pubblicato nell’ultimo anno di vita, il ‘75 (sarebbe scomparsa il 12 gennaio dell’anno successivo), fece morire il suo personaggio più popolare per un attacco di cuore perché si era dimenticato di prendere le pillole non senza aver prima risolto l’ennesimo caso.
Sipario è compreso nella scelta dei Meridiani insieme ad alcuni altri romanzi popolarissimi come Dieci piccoli indiani che però ha qui riguadagnato il titolo originale di E poi non rimase nessuno, Tre topolini ciechi (la celebre Trappola per topi), La casa sbilenca (molto caro all’autrice e noto come E’ un problema). Ci sono poi Verso l’ora zero, Il rifugio, Nella mia fine è il mio principio, i racconti Il villino degli usignoli e La lanterna. E infine La rosa e il tasso, uno di quelli firmati Mary Westmacott, “come se – dice Moresco – solo sotto falso nome e facendo perdere le proprie celebri tracce di scrittrice di successo avesse potuto scrivere l’altro romanzo, il romanzo che desiderava scrivere” non di genere e con “dialoghi profondi e taglienti, riflessioni e affermazioni forti”. E questo pur rimanendo Moresco convinto della superiorità dei romanzi in cui compare Poirot, “vertice del suo immaginario mitico e fiabesco e del suo scandaglio sul mondo. Con lui come disilluso, socratico e stregonesco Virgilio, viaggiando in apparente sottotraccia attraverso i moderni ‘generi’, è potuta diventare la scrittrice numero uno su un terreno tutto suo, esemplare e arcaico”. Al suo funerale chiese che fosse suonata l’Aria dalla Suite n.3 in re maggiore di Bach e lasciò scritte queste parole da incidere sulla lapide:
Dopo la fatica il sonno
Dopo la tempesta il porto
Dopo la guerra la quiete
Dopo la vita la morte è assai grata
Max, non riuscendo a cavarsela da solo, si risposò dopo un anno e mezzo di vedovanza con una sua assistente. Ma dopo nemmeno un anno morì anche lui per insufficienza miocardica. La moglie lo fece seppellire accanto ad Agatha, che quando aveva sentito avvicinarsi la fine gli aveva lasciato questo messaggio di non-addio: “Sono morta ma non lo è il mio amore per te, che vivrà sempre anche se muto”.