Uno sberlone a Messico e Canada, solo un buffetto a Pechino. Più che l’inizio di una guerra commerciale, è la pressione per discutere di immigrazione e trattati. Dove anche l’Europa e l’Italia hanno l’interesse e la possibilità di negoziare
I dazi di Trump sono armi per trattare, non per campagne di conquista. La prima voce ad aver lanciato un appello in tal senso all’intera euroarea è stata quella di Christine Lagarde, presidente della Bce. Mentre l’Europa sin qui sembra oscillare tra incredulità, paura e tamburi di guerra per preparare ritorsioni. Sulle parole di Lagarde torneremo più avanti. Meglio tentare di spiegare, con argomenti e numeri concreti, la ragione per cui è il modo stesso del primo annuncio a sorpresa fatto da Trump la settimana scorsa a indicare che la via preferita da Trump per primo è quella del negoziato, non della guerra aperta.
La doccia fredda è della settimana scorsa. “Appena avrò assunto le piene funzioni presidenziali cioè dopo il 20 gennaio prossimo – ha detto Trump – emanerò degli executive orders con cui disporrò l’immediato avvio del mio programma di aumento dei dazi, e comincerò con dazi del 25 per cento per le importazioni americane da Messico e Canada, e con un 10 per cento iniziale per l’import dalla Cina”. Nell’ordinamento statunitense, le ordinanze presidenziali su materie come dazi e tariffe hanno effetto esecutivo senza necessità di voti del Congresso. La sorpresa nel mondo è stata notevole, il tamburo di Trump in tutta la campagna elettorale aveva ripetuto che l’aumento dei dazi sarebbe stato fino al 60 per cento per i prodotti cinesi, e che era tempo anche di colpire l’import dall’Europa con dazi tra il 10 e il 20 per cento. Invece no, si comincia con uno sberlone a Canada e Messico, e con solo un buffetto a Pechino. Che infatti si è limitata a reagire con una pacata, stringata e vellutatissima dichiarazione del ministro cinese al Commercio, che come sorridendo si è limitato a dire che Pechino è prontissima a dialogare da subito con la nuova amministrazione americana.
Ma è proprio l’inizio dell’offensiva daziaria su Messico e Canada, a costituire il primo solido argomento che indica implicitamente la via della trattativa e non quella del conflitto. Contano i numeri, e quanto già avvenuto in passato.
Cominciamo dal Messico. Nel 2023 per gli Stati Uniti l’import proveniente dal Messico è stato pari a 475 miliardi di dollari, oltre 400 dei quali costituiti da prodotti e componenti manifatturieri. Una cifra pari all’80 per cento delle intere esportazioni del Messico nel mondo. Gran parte dell’import Usa dal Messico viene dalla filiera dell’auto e della componentistica meccanica, insieme a bevande e apparati medici. Le associazioni agricole statunitensi sono bravissime, come la nostra Coldiretti, a bombardare i politici facendo apparire l’import messicano di pomodori, ortaggi e verdure come un attentato alla sovranità a stelle e strisce da difendere a dazi spianati. Ma in realtà non è l’agricoltura ma l’industria meccanica, la vera forza che traina l’export messicano negli Usa.
Trump è stato esplicito: bisogna alzare i dazi perché il governo messicano deve decidersi una volta per tutte a darsi da fare per sigillare le frontiere contro i flussi di clandestina verso gli Usa. E’ l’esatta riproposizione della stessa minaccia che Trump fece dopo la sua prima vittoria alla Casa Bianca. L’allora presidente del Messico Lopez Obrador capì l’antifona, e decise una serie di misure straordinarie di schieramento della Guardia nazionale ai confini, di impegno per la scoperta e distruzione dei tunnel clandestini realizzati dai trafficanti di migranti, come di indagini pressanti sul traffico di essere umani verso gli Usa che è un complemento delle attività con cui le grandi rete di narcotrafficanti messicani fanno pervenire droghe e armi negli Usa. La trattativa durò a lungo, le misure messicane non bastavano all’amministrazione americana, che ne approfittò per un ancor più ampio via libera in Messico ad azioni “coperte”, aeree e terrestri, di tutte le proprie agenzie federali per la sicurezza. Ma il pugno di ferro daziario era solo il primo round, per avviare una trattativa sul tavolo che a Trump interessava di più, che come vedremo non era solo quello dell’immigrazione clandestina.
Passiamo al Canada, che nel 2023 ha esportato negli Usa beni e servizi per 413 miliardi di dollari. Anche nel caso del Canada, l’export negli Usa è una componente assolutamente essenziale per la crescita dell’economia nazionale, visto che la quota assorbita dagli Stati Uniti è pari a tre quarti dell’intero export globale canadese. In ordine di importanza relativa, le importazioni dal Canada in Usa sono rappresentate da petrolio e derivati petroliferi: anche se gli Usa si sono resi autonomi dal punto di vista energetico su petrolio e gas grazie al fracking, la quota importata dal Canada ormai rappresenta il 60 per cento della bassa quantità di petrolio importato in Usa, e Washington ha così potuto ulteriormente abbattere l’influenza sui propri costi energetici dell’andamento dell’offerta deciso dai paesi dell’Opec. Dopo il petrolio, nell’export verso gli Usa vengono anche nel caso canadese auto e componentistica e macchinari industriali, poi materie plastiche, legno e prodotti farmaceutici. Come per il Messico, anche per il Canada la prima richiesta di Trump è un serio giro di vite nei confronti dell’emigrazione verso gli Usa, a cominciare dalle quote di latinos che negli ultimi anni hanno scelto il Canada come via meno accidentata del Messico per approdare negli States.
Anche verso il Canada la prima amministrazione Trump innalzò subito la bandiera di guerra del rialzo dei dazi. Ma l’obiettivo vero divenne presto sempre più chiaro: piegare messicani e canadesi al superamento di quello che Trump considerava “il peggior accordo commerciale mai raggiunto dagli Stati Uniti nella storia”, cioè il Nafta, l’accordo di libero commercio firmato dai due paesi con gli Usa nel 1994, a sua volta figlio dei precedenti accordi di liberalizzazione degli scambi che Usa e Canada avevano sottoscritto ispirandosi al modello dell’Unione Europea. La pressione di Trump minacciando di alzare i dazi ottenne esattamente quanto si prefiggeva: un nuovo trattato tra Usa, Messico e Canada. Le trattative andarono avanti per l’intero corso della prima amministrazione Trump e alla fine, il 1° luglio 2020, al posto del Nafta entrò in vigore il nuovo accordo preferenziale di libero scambio tra Canada, Messico e Stati Uniti, l’Usmca (United States–Mexico–Canada Agreement). In realtà canadesi e messicani a quel tavolo ottennero molte concessioni, rispetto alle minacce iniziali di Trump che voleva riportare negli Usa le attività manifatturiere che le grandi imprese statunitensi avevano delocalizzato oltrefrontiera alla ricerca di minori costi. L’ Usmca in realtà non ha stravolto il Nafta, ha disciplinato temi 25 anni prima non affrontati come il commercio digitale o la protezione dei diritti intellettuali. E la più ampia compartecipazione ai benefici degli abbattimenti tariffari anche per le piccole e medie imprese. Ma nella sostanza l’accordo raggiunto sulla quota di compartecipazione intangibile di Messico e Canada sull’intera produzione di auto nell’intero Nordamerica rappresentò una vittoria degli interessi economici e occupazionali di Messico e Canada. Gli agricoltori statunitensi rimasero a bocca asciutta, di fronte all’abbattimento di dazi per alcuni prodotti messicani come quelli lattiero-caseari. Ed è ora alla ricerca di una nuova revisione del trattato, che Trump torna all’assalto e ripete il copione “vi alzo i dazi”: vuole un nuovo round di trattative con Messico e Canada. I i leader dei due paesi l’hanno capito benissimo, telefonando a Trump in poche ore per dichiarare la propria immediata disponibilità a parlarne. Entrambi i paesi sanno bene due cose, che per messicani e canadesi rappresentano punti di forza. Oggi sul parco circolante di veicoli statunitensi il 23 per cento è prodotto in Messico (per due terzi) o in Canada (l’altro terzo). Negli ultimi decenni sono giganti statunitensi come general Motors, Ford e Chrysler (oggi Stellantis) ad aver aperto un numero crescente di stabilimenti in Messico e Canada, e per Trump e l’economia Usa sarebbe un clamoroso autogol sparar loro addosso. Quindi, meglio trattare.
Qualche numeretto anche sulla Cina. Che nel 2023 ha esportato negli Usa per un valore di 427 miliardi di dollari. Un valore che però rappresenta oggi solo il 15 per cento dell’export globale cinese, una quota molto inferiore a quella di dieci anni fa perché il governo cinese ha capito bene che con Trump e Biden l’agenda americana si era spostata sull’Indo-Pacifico per contrastare l’ascesa cinese, mentre nel frattempo l’export di Pechino si moltiplicava nel resto del mondo. Trump la settimana scorsa si è limitato ad annunciare aumenti dei dazi del 10 per cento sui prodotti cinesi, ben diversi dal 60 per cento ripetuto in campagna elettorale. E l’accusa alla Cina è di continuare a rappresentare il focolaio originario della produzione di sostanze e princìpi attivi necessari alla produzione illegale di Fentanyl , la droga-piaga di massa statunitense degli ultimi anni che dall’Asia attraverso i narcotrafficanti centroamericani valica poi clandestinamente le frontiere Usa. Non a caso il morbido commento del ministro del Commercio cinese, compreso al volto che il 10 per cento è un invito a trattare e non guerra commerciale totale, è stato accompagnato da una nota in cui la Cina riepiloga tutti i protocolli speciali messi in atto in questi anni da Pechino per stroncare la produzione di componenti per la produzione di droghe.
Altro dato fattuale si cui riflettere. La nomina trumpiana al Tesoro di Scott Bessent, non dell’estremista caro a Elon Musk, anch’essa ha qualcosa di importante da dirci sui dazi. Bessent è un uomo di lunga e apprezzata esperienza sul fronte della finanza volta a investimenti produttivi. Per questo si è detto sì favorevole anche a usare lo strumento di pressione dei dazi a fini geopolitici. Ma sempre richiamando con attenzione che è interesse primario dell’economia statunitense non ignorare tre conseguenze che possono potentemente attivarsi e finire fuori controllo, se si usano i dazi come arma assoluta. E cioè l’aumento dei prezzi per i consumatori americani, visto che gli importatori colpiti da aumenti indiscriminati di tariffe li trasferiscono al consumatore finale. Poi l’effetto di sostituzione dei paesi importatori per aggirare i dazi, che si scatena attraverso triangolazioni ancor più temibili per la geopolitica degli Usa: come abbondantemente comprovato in questi anni dalla quantità di paesi Brics divenuti di buon grado “paesi di rimbalzo” dei flussi di export energetico a favore di Russia e Iran. Nonché, infine, il rischio di una raffica di misure ritorsive contro i prodotti Usa, in risposta a dazi adottati unilateralmente da Washington senza passare prima per trattiva bilaterali. Anche perché, ha più volte detto Bessent, è vero, la Wto (Organizzazione mondiale del commercio) è rimasta priva di norme efficaci per gli arbitrati e per l’enforcement contro chi viola i trattati, e la Cina ne ha enormemente beneficiato. Ma i 355 accordi commerciali preferenziali oggi esistenti nel mondo sono in realtà discriminatori a favore dei soggetti che li hanno bilateralmente contrattati e firmati, e l’interesse degli Stati Uniti va in direzione opposta, perché questo gioco asseconda molto più gli interessi di Cina e Russia, che puntano a intese bilaterali con governi deboli per assicurarsi materie prime e basi militari sugli oceani e nel mondo.
Per tutte queste ragioni, la Ue e l’Italia dovrebbero capire l’antifona e il messaggio neanche troppo implicito espresso da Trump. E’ controproducente limitarsi ad aspettare che Trump annunci nuovi dazi anche sui prodotti europei, in coerenza alla promessi di alzarne le aliquote aliquote dal 10 al 20 per cento. Bisogna al contrario darsi subito da fare per dissipare inquietudine e terrore che hanno preso a estendersi su questa materia nell’industria europea. In Germania vengono presentate ogni settimana nuove stime sugli effetti possibili dei dazi minacciati da Trump per l’export manifatturiero tedesco, con una forbice che va dai 120 ai 190 miliardi di valore che andrebbe in fumo in quattro anni. Tutte previsioni che calano nuove mazzate sulla fiducia nella ripresa di un paese che si avvia a chiudere il 2024 di nuovo con un pil in contrazione, dopo il -0,3 per cento del 2023. Anche nelle territoriali del Nord di Confindustria fiorisce ormai una profusione di stime allarmate sul rischio cui sono esposti produzioni e stabilimenti italiani, visto che gli Usa sono il secondo mercato di sbocco del nostro export, ed è esattamente questo aggancio diretto alla forte crescita statunitense ad averci consentito negli ultimi anni di far meglio dell’export francese e tedesco.
Appena insediata la nuova Commissione europea, a gennaio, dovrebbe dunque subito dichiarare l’avvio di trattive dirette con gli Usa. Su questo fronte caro a Trump, bisogna anticiparlo invece di attenderlo. Tenendo a mente tre cose. Primo, è verissimo che Trump e Biden hanno tenuto sui dazi atteggiamenti del tutto analoghi. Biden non si è certo rimangiato i dazi che Trump impose su acciaio e alluminio europei, a tutela della propria siderurgia. Secondo: nessuno dei due presidenti Usa ha però mai adottato dazi su tutti i prodotti importati da un paese messo nel mirino, assunzione fallace di tutte le previsioni che oggi girano in Europa relative all’impatto di dazi sulla nostra manifattura. Neanche con la Cina, c’è stata una guerra indiscriminata. Terzo: Trump in questi anni ha sempre picchiato sull’export di auto tedesche negli Usa, questo è il settore prioritario delle produzioni europee che vuole colpire. Bisogna i tedeschi capiscano che è meglio investire di più in stabilimenti in Europa e Nord America piuttosto che in Cina, dove la loro scommessa è a oggi sostanzialmente fallita. Quarto: occhio che Trump vuole disboscare molti dei limiti posti da misure come l’Ira di Biden, che ha disposto pesanti vincoli alle imprese europee fornitrici di componenti a quelle Usa. E’ esattamente su questa possibilità che l’Europa e l’Italia hanno l’interesse a trattare con la nuova amministrazione Trump.
Torniamo su quelle che finora sono state le parole più lucide pronunciate in materia in Europa. Quelle di Christine Lagarde, che per una volta intervistata dal Financial Times ha fatto bene a esondare dalle sue competenze istituzionali di presidente Bce. “Di fronte alla minaccia di tariffe tra il 10 e il 20 per cento – ha detto Lagarde – l’Europa potrebbe segnalare che siamo disposti a sederci al tavolo con gli Usa per vedere come lavorare insieme, offrendo di acquistare determinate cose dagli Stati Uniti. Ritengo che questo sia uno scenario migliore rispetto a una strategia di pura ritorsione, a un percorso colpo su colpo, in cui nessuno è realmente vincitore. Una vera e propria guerra commerciale non può essere nell’interesse di nessuno e porterebbe a una riduzione globale del pil”. Lagarde ha proposto come esempi di contropartita da offrire a Trump l’acquisto europeo di maggiori quote di gas naturale liquefatto americano, già di molto salite per sostituire il gas di Putin, nonché l’acquisto comune europeo di maggiori sistemi, veicoli e piattaforme di difesa prodotti dagli Usa. Chi qui scrive non è molto convinto che siano gli esempi giusti. Più del Gnl americano, all’Europa serve più nucleare oltre alle rinnovabili intermittenti, e sulla difesa l’Europa deve spendere di più estendendo la cooperazione diretta dei gruppi industriali europei della difesa e sicurezza, gruppi che da separati e concorrenti sono molto più deboli che se fossero uniti su acquisti comuni europei per le forze armate. Mentre, al contrario, l’Europa ha una duplice possibilità da giocare. La prima è l’ingentissimo flusso di risorse finanziarie che dall’Europa preferiscono investire negli Usa: dai 330 miliardi annui richiamati nel Rapporto Draghi, vista la contrazione europea in corso la bilancia dei pagamenti cumulata della Ue mostra che in questo 2024 il flusso di risorse europee verso gli Usa potrebbe avvicinare o superare quota 400 miliardi. La seconda possibilità è di lavorare insieme sulla deregulation che Trump ha in mente per gli investimenti industriali negli Usa, per aprire finestre ai gruppi europei invece che limitarne l’accesso come fatto da Biden. Garantendo preferenze paritarie per gli investimenti Usa in Ue. Gli Hypesrcaler tecnologici e logistici Usa in questi ultimi mesi hanno rafforzato e non ridotto i loro investimenti per decine di miliardi in Italia e Europa, su data center avanzati. E’ una tendenza da assecondare e coltivare, visto il nostro ritardo in materia, ergo non è il momento di clave europee contro Microsoft, Google, Amazon eccetera.