Contro l’Italia della gogna. Parla il ministro Carlo Nordio

Separazione delle carriere, nuovo Csm e calendario svelato. “Entro dodici mesi, la riforma sarà approvata. E vogliamo il referendum”. Come la giustizia è diventa la priorità del governo Meloni. Carcere, intercettazioni, migranti (con una notizia)

È diventata la battaglia identitaria del governo. La più importante, la più urgente, forse anche la più fattibile. È diventata, da qualche mese a questa parte, la priorità numero uno del governo Meloni, la riforma più ambita, la più agognata, la più coccolata ed è successo tutto poche settimane fa, quando la presidente del Consiglio, capendo l’andazzo sulla riforma del premierato, troppo divisiva, e l’andazzo sulla riforma dell’autonomia, troppo pasticciata, ha comunicato al governo, e ai relativi partiti della maggioranza, che il Parlamento avrebbe dovuto mettere al centro di tutto, al centro del calendario, la riforma della giustizia. Obiettivo numero uno: prima lettura entro gennaio. Obiettivo numero due: approvazione del disegno costituzionale entro la fine del prossimo anno. Obiettivo numero tre: referendum nel 2026. Obiettivo numero quattro: rinviare, a dopo le elezioni politiche del 2027, ogni eventuale referendum su altre riforme, meglio non rischiare. Incontriamo Carlo Nordio venerdì mattina a via Arenula. È il giorno del Consiglio dei ministri, oltre che il giorno dell’anniversario dei centocinquant’anni dalla nascita di Winston Churchill, che Nordio ama molto e sulla cui storia ha scritto un pamphlet a puntate proprio per il nostro giornale, e il ministro accetta di chiacchierare con noi per provare a fare il punto sui temi della giustizia, su quello che è stato, su quello che potrà essere, su quello che sarà.


Ministro, quand’e successo che la presidente del Consiglio le ha comunicato la volontà di reinserire come priorità assoluta la riforma della giustizia?

“Non ci sono stati colloqui formali sul tema, ma sono cose maturate da sole perché innanzitutto è un argomento politicamente molto importante: la riforma della giustizia è fondamentale per una ragione semplice: dal 1993, con Tangentopoli, la politica è stata subalterna alla magistratura. Questo va detto, io lo scrivo da trent’anni e la politica non si è forse mai resa conto che questa retrocessione da parte della politica della sua autorevolezza, che deriva dalla legittimazione della volontà popolare, ha lasciato un vuoto di potere a poco a poco occupato dalla magistratura. Anche a seguito probabilmente delle ultime vicende, quelle più recenti, ci si è resi conto che la riforma della giustizia, che è nel programma governativo, era più utile rispetto sia all’autonomia sia al premierato. Detto questo vi è anche – presumo, perché non ne ho parlato – una ragione più pratica: la giustizia è uno degli argomenti che trova tutti assolutamente concordi, per cui se si deve cominciare con un referendum qui almeno siamo sicuri che non ci siano, diciamo, delle differenti interpretazioni”.

Qual è la priorità della riforma?

“La separazione delle carriere è un punto centrale del programma governativo. E’ una bandiera, per questo governo, per questa maggioranza, è connaturata al codice accusatorio ed è una conseguenza tecnica prima ancora che politica del fatto che il nostro paese, anni fa, ha introdotto il codice Vassalli. La questione è semplice. In tutti gli ordinamenti accusatori anglosassoni, la separazione delle carriere è normale, quindi dire che è un attentato alla libertà, all’indipendenza della magistratura, non è corretto. In secondo luogo, in merito a questa cattiva interpretazione un po’ strumentale di una parte della magistratura che diceva essere questo il primo passo verso la sovrapposizione dell’esecutivo al mondo della magistratura, abbiamo subito assicurato che la legge costituzionale che noi abbiamo proposto pone in chiarissimi termini l’assoluta indipendenza del pubblico ministero dal potere esecutivo. Questa è la premessa. E questa è una riforma così ben voluta dal governo, da tutte le forze politiche che lo sostengono, da essere stata accolta con un applauso quando è stata approvata all’unanimità in Consiglio dei ministri”.


In Aula il 9 dicembre, approvata entro il 2025, referendum entro i primi mesi del 2026, confermiamo?

“Confermiamo. Ma aggiungiamo anche altro. Aggiungiamo qualche punto. In primo luogo, la separazione delle carriere, che di fatto in buona parte già esiste con l’ordinamento della Cartabia, è accompagnata da due riforme che sono ancora più importanti: il sorteggio di parte del Csm e l’istituzione dell’Alta corte disciplinare. Perché sono importanti? Semplice. Da un lato vi è la degenerazione correntizia che è stata denunciata da tutti, dagli stessi magistrati, in occasione dello scandalo Palamara, ma anche dopo, dallo stesso presidente della Repubblica. Tutti concordano sul fatto che c’è una degenerazione correntizia. Mi chiedo: vogliamo fare qualcosa o no? Vogliamo chiederci o no da cosa dipende? Il governo lo dice chiaramente. Questa degenerazione dipende dal fatto che il il Csm, che è l’organo costituzionale che regola la magistratura, sta alle correnti come il Parlamento sta ai partiti. Cioè le correnti sono rappresentate nel Csm che diventa il loro strumento esecutivo. In questo modo era inevitabile che vi fosse una sorta di sovraesposizione da parte della magistratura, con le conseguenti esondazioni”.

Come spiegherebbe a coloro che hanno dubbi su questa riforma la pericolosità di un paese che non si ribella di fronte a una repubblica fondata sul potere delle procure e sulla cultura della gogna?

“Nel nostro approccio, nel tentativo di creare un nuovo equilibrio, vi è una ragion pura e una ragion pratica. La ragion pura è che una parte della magistratura pone come ostacolo a questa riforma il timore che il pm diventi un super poliziotto e passi sotto l’esecutivo. A parte il fatto che abbiamo assicurato con una legge costituzionale che questo non accadrà mai, ma comunque, il punto è che è oggi che il pm è un super poliziotto, anzi purtroppo è un super, super, super poliziotto. Perché, e questa è una cosa importante, il pubblico ministero italiano è l’unico organismo al mondo, e sottolineo al mondo, che abbia un forte potere senza alcuna responsabilità. Perché tecnicamente parlando succede tutto questo? Perché quando è stato introdotto il codice Vassalli non abbiamo scelto né il sistema inglese né quello americano. In quello americano, il Public Prosecutor, è il capo della polizia giudiziaria, come da noi, e quindi è un forte potere, però è elettivo e ha una responsabilità politica: se non va bene va a casa. Nel sistema inglese invece il pubblico ministero, che fino a pochi anni fa neanche esisteva, è indipendente, ma non ha il potere di dirigere la polizia giudiziaria, e quindi, come vedete anche nei film, le indagini le fa Scotland Yard. Noi abbiamo oggi un mondo, in Italia, così fatto: un pubblico ministero con le garanzie di indipendenza e autonomia che ha il giudice ma con i poteri di un super poliziotto. E quindi è adesso che il pm è un super poliziotto che può agire senza rispondere a nessuno”.

In che cosa il governo vede, nel mondo della magistratura, un’irresponsabilità, nel lavoro quotidiano?

“Più che nel lavoro quotidiano, direi nel modo di affrontarlo. Per esempio, molti pubblici ministeri possono imbastire indagini lunghe, costose, dolorose, clonate, cioè senza avere nemmeno una notizia criminis degna di questo nome, e che poi queste inchieste si possono concludere serenamente nel nulla, senza che qualcuno risponda di ciò che ha fatto, salvo la marea di dolore, di costi e di ritardi della giustizia che queste indagini sono costate. Ci sono tantissime anomalie su questo punto. La più grave secondo me è che un pubblico ministero può clonare i processi, cioè una volta che chiede l’archiviazione si tiene un pezzetto di indagine e su quella imbastisce un nuovo processo e va avanti per anni e anni. Tutto questo non è rimediabile perché il pubblico ministero, proprio perché è un super poliziotto oggi e non risponde nessuno, è arbitro assoluto dell’indagine e può fare quello che crede senza essere responsabile di nulla, in primo luogo dei suoi errori”.

Nordio nel gennaio scorso all’inaugurazione dell’anno giudiziario presso la Corte di cassazione (LaPresse)

Che cosa pensa quando sente un magistrato che attacca chi lo vuole trasformare in un burocrate? E’ così sbagliato che un magistrato venga considerato esattamente un burocrate? E’ così sbagliato sostenere che il compito di un magistrato non è interpretare in maniera il più possibile soggettiva le leggi ma è quello di applicare le leggi senza trasformarsi in un garante della Costituzione, ruolo che dovrebbe rivestire non il magistrato ma il presidente della Repubblica? E’ così sbagliato dire che un magistrato che si sente il garante della Costituzione si auto-investe di un ruolo che non è suo?

“Condivido questo ragionamento. E’ un tema che abbiamo affrontato pochi giorni fa in un convegno a Firenze. E su questi temi sono stati molto chiari sia il vicepresidente del Csm Fabio Pinelli, sia il sottosegretario Alfredo Mantovano. Il magistrato ha come punto di riferimento la legge ordinaria: nel momento in cui dubitasse della sua compatibilità con la Costituzione deve rivolgersi alla Corte costituzionale ma non può scavalcare la legge ordinaria applicando direttamente la Costituzione. Non è il suo compito, perché questo è un compito che tra l’altro, se mi è consentito, umilia la Corte costituzionale, perché la stessa Costituzione definisce quelli che sono i paletti dell’azione di un pm e tra questi non c’è quello di essere il garante della Carta. Detto ciò, burocrate o non burocrate? Io continuo a dire che non è affatto superata l’espressione famosa di Montesquieu secondo cui il magistrato doveva essere la bouche de la loi, ho anche detto e lo ripeto che le bocche dei magistrati, sempre per citare il mio amato Shakespeare, non sono povere bocche mute come le ferite di Cesare, sono bocche che parlano, sono bocche che interpretano la legge alla luce anche dello Zeitenwende, del mutamento dei tempi, ma sempre nei parametri fissati dalla legge stessa, cioè l’interpretazione sistematica, l’interpretazione analogica, che è quelle dettata dal codice civile, ma escludendo in via assoluta il diritto creativo. Quindi – e questo l’ha detto a chiare lettere anche il presidente della Repubblica – il magistrato non può interpretare la legge in senso costituzionalmente orientato se la legge si esprime chiaramente su un determinato soggetto. Se però ritiene che quella legge sia in contrasto con la Costituzione, la stessa Costituzione gli propone il rimedio di andare alla Corte costituzionale. Punto”.

Che cosa è successo nel Consiglio dei ministri della scorsa settimana, quello di venerdì, quando il nuovo pacchetto di norme sulla giustizia è stato svuotato?

“Si era diffusa la voce non fondata che noi volessimo mettere una sorta di bavaglio ai magistrati. E si era diffusa l’idea che vi fosse l’ipotesi di sanzionare i magistrati che non si astengono quando sussistono gravi ragioni di convenienza. Ora, una cosa è rivedere a largo spettro quelle che possono essere le deontologie dei magistrati nel momento in cui, parlo dei giudicanti più che dei pubblici ministeri, devono giudicare su argomenti dove si sono espressi, altra cosa è imbavagliare la libertà di pensiero. Questo tema non è stato affrontato proprio perché io stesso ero molto perplesso perché sarebbe sembrato, in modo gratuito, una forma quasi di sfida, se non proprio di provocazione, verso la magistratura. Per noi, per me, ci sono dei progetti che non sono negoziabili. Sulla separazione delle carriere e sulla riforma costituzionale non c’è niente da fare: si fanno senza se e senza ma. Su tutte le altre cose – qui dove è seduto lei ho ricevuto molte volte il presidente dell’Anm Santalucia – io sono per la massima conciliazione e anche per trovare dei punti d’incontro”.

Ma questo provvedimento che è stato rinviato a data da destinarsi cosa prevedeva?

“Non c’era un articolato specifico, in generale prevedeva una sanzione nei confronti di magistrati che non si fossero astenuti quando avevano il dovere di astenersi. Dal parlare, ma soprattutto dal pronunciarsi su provvedimenti istituzionali in materie su cui si erano già espressi”.

Per esempio, qual era il caso specifico?

“Se un magistrato ha apertamente criticato il merito politico di una legge e poi da giudice, più che da pubblico ministero, giudica uno in base a quella legge, non viene percepito come imparziale. Su questo ci tengo a dire che c’è uno studio condotto vent’anni fa da Marcello Pera nell’ambito della prima commissione bicamerale, che adesso noi recupereremo, che è molto più articolato e molto più omogeneo, e ne discuteremo con la magistratura. Io credo che sia nell’interesse stesso della magistratura trovare un punto di incontro per definire i limiti entro i quali un giudice o un pm ha diritto di esprimersi. Mi permetta però di fare una distinzione, una forte distinzione tra pm e giudice. Il pm, e lo vedremo meglio con la separazione delle carriere, è una parte, come l’avvocato, quindi ha una libertà molto maggiore nell’esprimersi, perché non decide niente. Mentre il giudice, che è chiamato a ius dicere, deve essere percepito come imparziale. Si dice che deve essere e apparire. Io userei un’altra espressione invece di ‘apparire’. Deve essere percepito dal giudicato, dalla persona accusata, come uno che è terzo. Poiché la Costituzione dice che deve essere terzo, terzo vuol dire che non deve appartenere né all’una né all’altra schiera, ecco la separazione delle carriere, ma deve essere terzo anche dal punto di vista ideologico, quindi più si esprime nel merito politico, non tecnico, di una legge e meno viene percepito come imparziale. Aggiungo un’altra cosa importante: gli ultimi sondaggi ci dicono che la fiducia degli italiani nella magistratura è crollata al 31 per cento. Quando sono entrato io era uguale a quello della Chiesa cattolica, oltre l’ottanta. Tutto questo da cosa dipende? Dipende dal fatto che la gran parte degli italiani, anche quelli che votano magari in un altro modo, per il settanta per cento, non percepisce la magistratura come imparziale. La nostra riforma è trasversale e, quando sarà, con il referendum lo dimostreremo”.

Restiamo al tema della dialettica con i magistrati. Il fronte più vivace in questi mesi è stato certamente quello sull’immigrazione. E in particolare quello che ha riguardato il confronto, vivace, duro, tra maggioranza e magistratura sul tema della definizione dei paesi sicuri. Da una parte, ci sono giudici che hanno bloccato i trattenimenti di alcuni migranti portati in Albania dal governo e che hanno rivendicato di avere l’ultima parola nella definizione dei paesi sicuri in cui organizzare i rimpatri. Dall’altra parte vi è il Tribunale di Bologna che ha rinviato alla Corte di giustizia europea il caso di un richiedente asilo in Italia, rimettendo ai giudici europei la questione della supremazia del diritto comunitario rispetto a quello nazionale, e provando a mettere in discussione il decreto del governo per avere l’ultima parola nella definizione dei paesi sicuri. Ministro, c’è un complotto contro il governo?

“Sono stato la settimana scorsa in Olanda sia l’Eurojust, per la Corte penale internazionale e per l’incontro con il ministro omologo della Giustizia e abbiamo parlato anche di questi temi. Il problema fondamentale è che in Europa non esiste una legislazione omogenea sull’immigrazione e ognuno fa quello che gli pare. Il primo comandamento della giustizia amministrata è quello che per avere un processo bisogna avere alle spalle un codice sostanziale. Noi abbiamo processi senza avere codici sostanziali, cioè siamo sospesi a queste pronunce di varie corti senza però che ci sia un diritto omogeneo sottostante. Quindi ognuno va per conto suo. Qual è però, se devo essere sincero, il punto fondamentale? Secondo me, almeno quando è scoppiata la polemica, nessuno aveva letto la sentenza della Corte di giustizia europea. Io l’avevo letta in francese, e il mio francese, checché se ne dica, non è ‘goffo’, direi che è buono. In quella sentenza, che trattava tutt’altro argomento, si dice una cosa semplice. Faccio un esempio: se un paese è sicuro al novanta per cento in generale, ma non è sicuro, per esempio, per l’orientamento sessuale, perché punisce gli omosessuali, se un emigrante è omosessuale, effettivamente per lui quel paese non è sicuro, ma se non è omosessuale, per lui quel paese è sicuro. Ecco perché devi guardare caso per caso. Un altro caso, per esempio, è quello di paesi dove è punita la mutilazione genitale femminile, ma se arriva uno di sesso maschile, per lui il paese è sicuro. Date retta a me: quella sentenza della Corte di giustizia europea non è stata letta e se è stata letta non è stata capita. Sui casi dei giudici di Roma, ora, si pronuncerà la Cassazione e vedremo. Nel secondo caso, quello di Bologna, dove forse hanno studiato meglio la questione, non hanno rifiutato la convalida. E infatti nell’ordinanza del decreto dicono ‘noi non ci pronunciamo sulla legittimità o meno del fermo’, diciamo soltanto che ‘la questione va devoluta alla Corte internazionale”. Sono due cose molto diverse e la seconda, devo dire la verità, è tecnicamente molto più oggetto di riflessione anche da parte nostra. Ora, mi rendo conto che la domanda è un’altra: hanno ragione o hanno torto? Dal mio punto di vista, diciamo, squisitamente giuridico, la definizione di paese sicuro spetta alla normativa statale. Quindi siamo noi, stato, che con la nostra responsabilità dobbiamo dire quali sono i paesi sicuri e quali no. Detto questo, siamo d’accordo con l’Olanda, sarebbe bene che l’Europa una volta per tutte si pronunciasse”.

Ministro, ma il punto è un altro. E il punto sollevato dal suo governo è chiaro: c’è la volontà di mettere in difficoltà il governo sul tema dell’immigrazione utilizzando una interpretazione discrezionale delle leggi da parte della magistratura, sì o no?

“Lo escludo, perché sarebbe un sacrilegio, che i magistrati o alcuni magistrati abbiano dato un’interpretazione come quella che è stata data per mettere in difficoltà il governo. Cioè non voglio nemmeno pensare da ex magistrato che un magistrato interferisca. Poi uno la può pensare come crede, ma io non lo penso. D’altro canto però credo che le prime decisioni, proprio perché erano assolutamente carenti di motivazione, fossero abnormi. Le seconde, spero che vengano risolte in via giurisdizionale, e noi abbiamo fatto ricorso anche su quelle”.

In teoria, ministro, tutto si potrebbe risolvere in modo lineare. Le norme che oggi sono oggetto di interpretazione, ovvero i tempi rapidi per rimpatriare alcuni migranti, ovvero l’extraterritorialità nella gestione dell’immigrazione, sono norme che sono già state validate all’interno di un trattato europeo che entrerà in vigore il primo gennaio del 2026. Sarebbe sufficiente anticipare l’entrata in vigore di quel trattato per risolvere ogni problema. Perché il governo invece che combattere una battaglia con i magistrati non combatte una battaglia politica per anticipare la messa a terra del patto europeo sull’asilo e suoi migranti?

“Posso anticiparvi che è un’opzione che stiamo considerando. E stiamo cercando di capire se sia possibile farlo attraverso una battaglia in Italia o attraverso una battaglia in Europa. Non c’è dubbio: questa sarebbe la via migliore per risolvere il problema perché saremmo in linea con la direttiva europea, si tratterebbe solo di anticiparla”.

E’ vero che il ministro Nordio si augura che non vi sia la maggioranza dei due terzi, nell’approvazione del disegno di legge costituzionale sulla giustizia, per poter andare al referendum e chiamare i cittadini a esprimersi sulla riforma?

“E’ così. E non è solo il mio parere. Perché se ci fosse un accordo, magari risicato, dei due terzi del Parlamento, accordo che come è noto darebbe la possibilità di non celebrare il referendum, credo che la polemica su un tema così delicato continuerebbe sulla base di una cattiva consuetudine italiana di pensare che ci siano stati accordi sottobanco o do ut des. Mentre su una materia così cruciale e così costituzionalmente importante – separazione delle carriere, nuovo Csm, Alta corte di giustizia – penso sia necessario che si pronunci il popolo italiano”.

Rispetto alle riforme che sono state già approvate sulla giustizia, penso all’abuso d’ufficio, penso alle intercettazioni, penso alla volontà di tutelare la privacy delle persone terze estranee alle indagini, ci sono stati dei cambiamenti che possono considerarsi concreti?

“Li abbiamo visti e ne vedremo ancora tanti. Intanto, ci sono state più di trenta chiusure di provvedimenti disciplinari nei confronti di magistrati per abuso d’ufficio al Csm e al disciplinare, segno che il tema delle indagini su questo fronte non riguardava solo la politica ma anche la magistratura, ma ci sono state reazioni tutto sommato composte anche nel mondo dei tribunali, e solo due, in modo spericolate se mi consente, hanno sollevato la questione di legittimità costituzionale. Gli effetti ci sono, sono della vita quotidiana, ma sono anche culturali: l’abuso d’ufficio era una tipologia di reato inafferrabile, portava a un numero irrisorio di condanne, offriva la possibilità a un qualsiasi magistrato di bloccare l’attività di un amministratore locale e averlo rivisto è un atto di civiltà, di cui sono orgoglioso io e di cui sono sicuro sia orgoglioso anche un pezzo di quel mondo politico che non appoggia il governo ma che su questo punto è certamente d’accordo con noi”.


Ci sono dati incoraggianti anche sul tema delle intercettazioni irrilevanti?

“No, sulle intercettazioni irrilevanti non abbiamo i dati perché sono coperti dal segreto. Ma su questo bisogna essere chiari. Era un atto di civiltà anche questo, proteggere le persone terze che finivano spiattellate sui giornali solo perché intercettate pur non essendo indagate, e su questo fronte abbiamo fatto semplicemente il minimo sindacale. E, se posso confidarmi, in verità sulle intercettazioni stiamo facendo dei progetti più radicali, anche il Parlamento sta portando avanti degli emendamenti importanti, come quello firmato dal collega di Forza Italia Zanettin, che fissa per alcune tipologie di reato un termine di 45 giorni alle intercettazioni. Questo però all’interno di una cornice di fondo: le norme sulle intercettazioni che riguardano mafia e terrorismo non si toccano, tutte le altre norme devono e possono essere riviste radicalmente. Su questo punto non mi stancherò mai di dire che abbiamo tre obiettivi. Primo: salvaguardare la dignità e la riservatezza delle comunicazioni dei cittadini che sono previste dall’articolo 15 della Costituzione. Secondo: limitare le spese, perché spendiamo centinaia di milioni di euro l’anno per intercettazioni a strascico ed è inaccettabile. Terzo: per evitare che ci siano dei processi, non faccio allusione a nessuno, o meglio delle indagini, che partono con la contestazione o supposizione di un reato, tipo quello associativo, che consente le proroghe senza limite di queste intercettazioni, e poi anche se il reato associativo cade le intercettazioni rimangono e la legge viene elusa. E’ inaccettabile”.

Perché un limite di 45 giorni alle intercettazioni?

“Innanzitutto per evitare intercettazioni a strascico che siano a tempo indefinito, poi per allinearci con la media europea: l’Italia effettua intercettazioni dieci volte di più rispetto al Regno Unito, il quadruplo della Francia. E poi, e anche questo è importante, per risparmiare risorse che possono essere invece devolute alle vere intercettazioni che contano, cioè quelle contro la mafia. Quando ho detto in Parlamento che la mafia non parla al telefono, e mi hanno detto che volevo fare un regalo alla mafia e altro, bè, oggi quel punto è ammesso da tutti. Al cellulare, neanche con il trojan riesci a intercettare le grandi organizzazioni, che comunicano attraverso piattaforme inaccessibili o accessibili soltanto attraverso forti investimenti tecnologici. Allora la mia idea è quella di risparmiare sulle intercettazioni a strascico che durano tre anni nei confronti di un sindaco e devolvere quelle risorse proprio per poter investire in nuovi strumenti per portare avanti una grande lotta alla criminalità organizzata”.

A proposito di intercettazioni a strascico. Negli ultimi mesi abbiamo visto emergere tantissimi casi, che potrebbero essere definiti di spionaggio, di dossieraggio, di realtà varie tutte impegnate a raccogliere abusivamente informazioni e intercettazioni sulla vita degli altri. Possiamo dire che negli ultimi anni c’è stata troppa attenzione a controllare i potenti e poca attenzione a controllare i controllori? E il ministro Nordio, rispetto ai casi di dossieraggio registrati negli ultimi mesi, pensa che in Italia vi sia una qualche forma di spionaggio organizzato o pensa vi sia solo un mercato nero che attinge quando può a varie realtà criminali?

“Credo che siano vere tutte e due le ipotesi. La conoscenza è potere, e quindi la grande criminalità, attraverso captazioni fatte in proprio o attraverso grandi corruzioni, cerca in tutti i modi di captare notizie di interesse strategico, e a volte ci è riuscita. Questo non esclude che per il piccolo cabotaggio, per curiosità personale o per l’assegnazione di incarichi anche per sospetti tradimenti coniugali, vi siano stati degli eccessi impropri perché non c’è stato abbastanza controllo. Su questo sono perfettamente d’accordo: il vecchio adagio quis custodiet custodes in Italia è valido più che mai, ma sono trent’anni che lo stiamo predicando perché da trent’anni, da quando escono intercettazioni, anche quelle legali, però coperte dal segreto, nessuno ha mai indagato su chi avesse l’obbligo di custodire queste intercettazioni. Se si diffonde l’idea che vi sia una carenza di indagini anche nei confronti dei controllori e dei magistrati, è ovvio che ci si senta legittimati ad agire nell’impunità. Lo dico con un paradosso: se la magistratura può entrare illegalmente nella vita degli altri, con il bollino dello stato, perché non possiamo farlo tutti?”.

Ministro Nordio, venerdì scorso, a La Spezia, si è registrato il suicidio numero ottantatré in un carcere. E’ un’emergenza nazionale, un dramma sociale e culturale di cui il governo purtroppo non sembra accorgersi.

“Il problema è grave, esiste, e noi non ci sottraiamo. Abbiamo purtroppo ereditato una situazione complicata che non si può risolvere limitandoci a guardare i numeri. Il problema è ancora più grande, i suicidi sono la punta di un iceberg, sono un fardello di dolore – anche se il trend per fortuna mi sembra non seguire quello ancora più drammatico dei primi mesi dell’anno: eravamo a 61 a metà anno, ora siamo a 83. Come lo risolviamo? Qualcosa abbiamo fatto, molto possiamo ancora fare. Perché il problema dei suicidi c’entra fino a un certo punto con il sovraffollamento carcerario. C’entra prima di tutto con la capacità delle istituzioni di saper organizzare le carceri. Non è necessariamente la promiscuità che porta al suicidio. Vi sono altri fattori meno evidenti e prima di tutto psicologici. Per esempio, molti detenuti si suicidano quando arrivano, all’ingresso, e diversi anche quando sono sulla via dell’uscita dal carcere. Questo è un aspetto misterioso che stiamo cercando di capire con tutta una serie di studi. Quello che sappiamo, con certezza, è ciò su cui dobbiamo investire. L’edilizia carceraria, per esempio. Abbiamo nominato per la prima volta nella storia un commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria, che si è già messo al lavoro per trovare degli edifici da ristrutturare compatibili con la situazione carceraria e che abbiano spazi utili per lavorare, per fare sport”.

E’ vero che è allo studio una nuova legge sulle carceri per arrivare all’obiettivo di distinguere le strutture penitenziarie nelle quali far scontare le misure cautelari, separando i destini di coloro che hanno una pena definitiva da coloro che invece devono considerarsi presunti innocenti?

“Sì, lo confermo. Ci stiamo muovendo su tre direzioni. Una è quella, diciamo, di espellere i detenuti stranieri che possono già essere espulsi dal giudice di sorveglianza. La seconda più importante è quella di fare una sorta di detenzione differenziata soprattutto per i tossicodipendenti, molti dei quali più che essere delinquenti da punire sono malati da curare e su questo siamo già in contatto con molte comunità religiose e laiche. E un’altra strada, non da poco, è quella che stiamo per deliberare sul tema della carcerazione preventiva. Il 25 per cento dei detenuti è in attesa di giudizio. E sarebbe sufficiente intervenire su questi per risolvere molti problemi legati al sovraffollamento”.

E dove andrebbero i detenuti in attesa di giudizio?

“Lo dobbiamo definire, ma il tema centrale è prevedere una differenza di percorso. Un esempio però posso farlo. In molti avrebbero il diritto, anche secondo gli stessi magistrati, di avere la detenzione domiciliare, ma non avendo un domicilio non saprebbero dove andare. Stiamo cercando delle strutture e delle soluzioni per ovviare a questo problema. Vedrete, ci riusciremo”.

Una domanda al Nordio liberale: è preoccupato o no dall’ascesa del trumpismo?

“Io credo alla frase che è stata attribuita a Bismark: ‘Non si raccontano mai tante balle come prima delle elezioni e dopo la caccia’, quindi le cose che si dicono prima delle elezioni poi vengono sottoposte al vaglio dalla Realpolitik. Non credo che Trump costituisca minimamente una minaccia né alla tenuta della Nato né alla tenuta delle libertà anche perché in America esiste un check and balance estremamente diffuso”.

Trump non è pericoloso se non fa quello che ha promesso? Cioè, è pericoloso per quello che ha detto ma lei è certo che non lo farà? Complimenti per il suo ottimismo.

“Bè, guardi, magari Trump riuscisse a mettere fine alla guerra in Ucraina in ventiquattro ore, come ha detto. Non succederà. E in ogni caso, su questo non si scherza, si tratta di vedere come le metterà fine perché se dovesse farlo come hanno fatto a Monaco nel 1938, facendo capitolare l’Ucraina, allora sarebbe pericoloso. Però scommetto la carica ministeriale che entro 24 ore dal suo arrivo alla Casa Bianca non farà la pace e non cederà l’Ucraina a Putin”.

Domanda ancora al liberale Nordio: cosa pensa della scelta della Corte penale internazionale di emettere un mandato di arresto nei confronti di Netanyahu? Non fanno bene gli Stati Uniti d’America, che quella Corte non l’hanno mai riconosciuta, a considerare oltraggiosa l’equiparazione tra un leader democraticamente eletto, che difende il suo popolo, e i terroristi di Hamas?

“Io partirei da lontano, nel senso che questa forma di diritto penale internazionale è stata fondata proprio dagli Stati Uniti ed è stata avallata in primis da Robert Jackson che ha voluto fortemente il processo di Norimberga e là sono cominciate le discussioni sulla retroattività della legge penale, sul nullum crimen sine lege, sulla legittimità del processo fatto dai vincitori. Dopo di che, malgrado questo enorme processo, tutti gli altri sono falliti. Ho l’impressione che il progetto della pace perpetua voluto da Kant sulla base di una Corte penale internazionale abbia molte difficoltà, abbia molte lacune. Per di più manca un diritto penale internazionale: se non hai un diritto penale sostanziale è difficile avere un processo credibile. Poi è significativo il fatto che non solo gli Stati Uniti, ma anche stati come la Russia, la Cina, lo stesso Israele siano fuori dalla Corte penale internazionale. Perché questo? Perché, secondo me, essendo stati che possono essere coinvolti più di altri in conflitti bellici, sono anche quelli nei confronti dei quali queste corti possono interferire. Non vorrei sbilanciarmi sul tema della Corte, fatto salvo che è semplicemente ridicolo mettere sullo stesso piano un terrorista che colpisce un ebreo in quanto ebreo e il leader di un paese democratico che, pur con i suoi eccessi, difende il suo popolo. Dico solo che in genere processi di questo tipo, per essere credibili, si fanno quando le guerre sono finite, non durante le guerre, quando possono influenzarne l’esito”.

Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, quando è stato rieletto nel suo discorso di insediamento ha messo al centro la giustizia. Lei ha capito se il capo dello stato oggi condivide o no il percorso riformatore del governo su questi temi o se anche la giustizia rientra all’interno di quel perimetro di leggi che il presidente della Repubblica firma senza esserne d’accordo?

“Non cado nel tranello. Non mi permetterei mai di interpretare i pensieri del Presidente. Con lui abbiamo avuto vari incontri, qualche volta di ordine tecnico con suggerimenti che abbiamo accolto perché erano corretti, penso che possiate anche immaginare quali, e lo abbiamo fatto, tra l’altro, perché il Presidente oltre a essere garante della Costituzione è anche un fine giurista. Lo abbiamo sempre ascoltato. Per quanto riguarda le scelte strategiche, non posso non apprezzare il fatto che siano sempre state firmate dal Presidente. Essendo un liberale e avendo fatto molti discorsi anche sulla indipendenza della magistratura e l’impossibilità del diritto creativo, penso che il Presidente comprenda che l’intenzione delle nostre riforme non è affatto punitiva nei confronti della magistratura, ma serve a delimitare meglio la separazione dei poteri e, lo dico da ex magistrato, anche a rialzare il prestigio della magistratura, che come ho detto prima è crollato.

Le andrebbe di mandare un messaggio alla maggioranza, che in questo periodo è un po’ litigiosa, con picchi di paraculismo acuto, per citare un suo collega di Forza Italia?

“Io mi occupo essenzialmente di giustizia. Qualche volta, chiedendo scusa a Tajani, ma solo a fini culturali, parlo di politica estera, ma in termini storici come faccio ogni tanto con Churchill”.

E allora proviamoci con Churchill. Esiste una frase di Churchill che potrebbe spiegare ai litiganti della maggioranza perché dovrebbero darsi una calmata?

“Sì, una sì. Ci sono persone che abbandonano il proprio partito per amore delle proprie idee e altri che abbandonano le proprie idee per amore del partito. Chi vuol capire capirà”.

  • Claudio Cerasa
    Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e “Ho visto l’uomo nero”, con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.

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