L’Europa alle prese con una difficile transizione. Ursula von der Leyen ha annunciato un nuovo Clean Industrial Deal, nella forma l’evoluzione del Green Deal, nei fatti una correzione di rotta. Quali dovrebbero essere gli obiettivi, gli strumenti e i costi
La scorsa legislatura europea è stata quella dell’ambizione climatica. L’affastellarsi di provvedimenti a volte estremi e con conseguenze economiche e sociali (forse) impreviste ha contribuito a una primavera di scontento degli elettori: a giugno, hanno dato uno scossone ai governi nazionali e al Parlamento europeo. Quello che seguirà sarà un inverno di comprensione per poi arrivare, finalmente, a una primavera del buon senso?
Intervenendo a Strasburgo mercoledì scorso, la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, ha confermato che “un piano comune su decarbonizzazione e competitività” costituisce uno dei pilastri del suo programma per il prossimo quinquennio (assieme a “colmare il gap di innovazione con gli Usa e la Cina” e a “rafforzare la nostra sicurezza economica”). La Commissione “continuerà a perseguire gli obiettivi del Green Deal” ma “se vogliamo avere successo con la transizione, dovremo essere più agili e attenti a sostenere le persone e le imprese”. Sul tema la presidente ha frammentato le competenze tra sei commissari: in ordine di citazione nello speech (e quindi di peso politico), la spagnola Teresa Ribera (vicepresidente esecutiva per la transizione e responsabile delle politiche di concorrenza), il francese Stéphane Séjourné (vicepresidente esecutivo per la strategia industriale), l’olandese Wopke Hoekstra (clima, net zero e crescita verde, al suo secondo mandato), il danese Dan Jørgensen (energia e abitabilità) e il greco Apostolos Tzitzikostas (trasporti e turismo).
Ribera, che appare come una sorta di prima inter pares, è una figura chiave della Commissione, e non solo per l’importanza delle deleghe che le sono state affidate: chi la stima ne sottolinea la competenza e la conoscenza dei mercati energetici (che pochi altri politici possono vantare), chi la avversa ne evidenzia la vocazione verso un ambientalismo ideologico e pregiudizialmente anti-nucleare. Al di là delle polemiche un po’ strumentali sull’alluvione di Valencia, da ministra di Pedro Sánchez è stata la responsabile del “tope al precio del gas” con cui ha protetto famiglie e imprese iberiche dalla crisi dei prezzi del 2022. Fu una manovra spericolata, tecnicamente ben costruita ma contraria allo spirito e alla lettera dei Trattati. Ma è chiaro che, a dispetto del ruolo prevalente di Ribera, questa suddivisione è pensata appositamente per lasciare la mano libera alla presidente. Nel precedente mandato (2019-2024) le politiche energia e clima erano divise tra due soli commissari, Kadri Simson all’energia e Adina Valean ai trasporti, coordinati dall’architetto del Green Deal, il vicepresidente esecutivo Frans Timmermans. Timmermans divenne presto una delle figure più divisive dell’esecutivo Ue: la nuova composizione lascia intendere che von der Leyen vuole evitare il ripetersi di quella situazione.
Non a caso, la presidente ha annunciato “entro i primi cento giorni” un nuovo Clean Industrial Deal, che nella forma è l’evoluzione del Green Deal, nei fatti è una correzione di rotta. Resa necessaria non solo dalla virata della politica europea, ma anche da un contesto internazionale profondamente mutato. Intanto, nel 2019 la Russia era il nostro primo fornitore di gas e oggi è quasi scomparsa dal radar energetico europeo (il 31 dicembre scadranno gli ultimi contratti per l’utilizzo del gasdotto che attraversa l’Ucraina e anche questo spiega il trend rialzista del gas nelle ultime settimane). Secondariamente, le accelerazioni degli Stati Uniti e della Cina hanno indotto l’Europa a un rafforzamento della componente industriale delle proprie strategie, anche se non è detto che gli strumenti prescelti si riveleranno adatti. Infine, la vittoria di Donald Trump ridisegna completamente il panorama del commercio internazionale (i dazi sono stati ampiamente annunciati e colpiranno anche l’Ue) e dei vertici climatici (con l’abbandono del framework di Parigi). Gli Usa resteranno protagonisti dell’innovazione tecnologica in campo climatico, ma in sede negoziale giocheranno tutta un’altra partita, nella retorica e nella pratica. Il cambio negli equilibri politici è anche (sebbene non solo) il riflesso di queste trasformazioni. I socialisti e i verdi hanno mal digerito le aperture alla destra conservatrice, di cui la coccarda da vicepresidente esecutivo a Raffaele Fitto è l’espressione più netta.
Eppure, von der Leyen non aveva alternativa: lo stesso Ppe sta cercando di interpretare questa nuova fase in modo tale da garantire la sopravvivenza della Commissione. Lo si è visto plasticamente nel cambio di rotta sulla deforestazione, reso possibile proprio dalla convergenza tra il Partito popolare e la destra: proprio l’ambiente è il nuovo terreno di sperimentazione come ha sottolineato Claudio Cerasa sul Foglio del 21 novembre. Ciò ha anche prodotto un voto di fiducia assai teso, con appena 370 voti a favore (contro i 401 ottenuti a luglio). Nella scorsa legislatura la strategia climatica europea ha segnato uno strappo rispetto al passato non tanto nella continua revisione al rialzo degli obiettivi, quanto nel crescente peso della sua componente di politica industriale.
Ai target di riduzione delle emissioni (-55 per cento entro il 2030 e neutralità carbonica nel 2050, con un’ipotesi di -90 per cento nel 2040) l’Ue ne ha affiancati altri due, relativi rispettivamente alle energie rinnovabili e all’efficienza energetica. Sono questi, più del taglio della CO2, ad aver preso il sopravvento e a essersi declinati in una giungla di sotto-obiettivi e strategie: per citarne solo alcuni, Bruxelles ha varato iniziative, finanziamenti, obiettivi vincolanti, obblighi o divieti sui carburanti per la navigazione, per l’aviazione, per i trasporti leggeri e per i trasporti pesanti, ha stabilito il bando del motore endotermico dal 2035, è intervenuta sui carburanti alternativi, sulle rinnovabili, l’efficienza energetica, le case green, l’uso del suolo, l’idrogeno, la cattura del carbonio, il nucleare, il fotovoltaico, le batterie e la tassazione delle importazioni. Tutte queste misure si intrecciano, si sovrappongono, talvolta si contraddicono, e in ultima analisi creano extra costi e opportunità per gli interessi organizzati di andare a caccia di rendite nella foresta dei sussidi.
E’ anche questa percezione di inconoscibilità del diritto, che cambia continuamente e aggiunge obiettivi a obiettivi salvo poi correggere il tiro creando ulteriori distorsioni, a determinare un senso di frustrazione rispetto ai target ambientali europei. La nuova Commissione, dunque, potrebbe cercare di perseguire simultaneamente due obiettivi – tagliare le emissioni come vuole la sinistra, rassicurare lavoratori e imprese come chiede la destra – evitando di creare ulteriore entropia e, anzi, facendo ordine. Potrebbe farlo, in particolare, seguendo tre linee di intervento, senza sconfessare il passato ma riportando il “Green Deal” a principi di unitarietà e coerenza.
In primo luogo, dovrebbe chiarire che tra i diversi obiettivi e strumenti c’è una gerarchia: gli obiettivi ambientali, per esempio tagliare la CO2, dovrebbero prevalere su quelli industriali, per esempio farlo attraverso l’idrogeno verde o l’efficienza energetica. Questo significa che lo strumento cardine della decarbonizzazione dovrebbe progressivamente diventare l’Emissions Trading System (Ets), il mercato delle quote di emissione. Ciò perché si tratta di un meccanismo che consente di minimizzare i costi della riduzione delle emissioni. Oltre tutto, già oggi è previsto di affiancare, al tradizionale Ets, un secondo mercato, il cosiddetto Ets-2, per includere settori finora rimasti fuori, quali i trasporti e gli edifici.
Ma questo inevitabilmente implica un aumento dei costi: si parla di aggravi sulle bollette del gas attorno a 160 euro annui e circa 12 centesimi per ogni litro di carburante. Ed è solo l’inizio, visto che – dopo una prima fase transitoria con prezzi della CO2 calmierati attorno ai 50 euro / tonnellata – il sistema dovrebbe convergere con quello ordinario, con prezzi potenzialmente molto più alti. In assenza di correttivi, questo rischia di far detonare la rabbia sociale, delegittimando la transizione e alimentando il voto di protesta che tanto allarma la Commissione. Quindi l’avvio dell’Ets-2 non può essere disgiunto da una riforma della direttiva sulla tassazione dei prodotti energetici (Etd), per superare l’attuale frammentazione fiscale che vede imposte del tutto scorrelate sia dal contenuto energetico dei prodotti, sia dall’impatto ambientale derivante dal loro consumo.
La nuova Commissione dovrebbe chiarire che tra i diversi obiettivi e strumenti c’è una gerarchia: gli obiettivi ambientali, per esempio tagliare la CO2, dovrebbero prevalere su quelli industriali. Sganciarsi dal pregiudizio secondo cui la decarbonizzazione coincide con l’elettrificazione e l’elettrificazione con le fonti rinnovabili
Il secondo filone di riforma dovrebbe investire la dimensione della politica industriale legata alla transizione. E’ importante ripristinare il principio della neutralità tecnologica, tanto enunciato quanto (negli ultimi anni) ignorato senza necessariamente smontare l’impianto esistente, questo risultato può essere raggiunto equiparando tutte le tecnologie che consentono di evitare o abbattere le emissioni: per esempio, il nucleare e la CCS dovrebbero concorrere a raggiungere il target sulle rinnovabili, perché servono esattamente lo stesso obiettivo come, del resto, riconosce la Tassonomia delle tecnologie sostenibili. Ma questo implica anche fare uno sforzo intellettuale e sganciarsi dal pregiudizio secondo cui la decarbonizzazione coincide con l’elettrificazione e l’elettrificazione con le fonti rinnovabili: sebbene questi siano gli strumenti principali, non sono gli unici e non possono arrivare ad alcuni usi finali (per esempio le attività cosiddette “hard to abate”). L’idea che le oil companies dovrebbero essere forzate – attraverso spinte politiche, finanziarie e giudiziarie – a investire in fonti come l’eolico e il fotovoltaico è due volte sbagliata: perché le rinnovabili non hanno bisogno di “Big Oil” per trovare investitore e finanziamenti, e perché in tal modo si distoglierebbero le compagnie petrolifere da altre attività, come la CCS, i biocarburanti o l’idrogeno, che servono nei settori difficili da elettrificare.
Infine, e questo è forse l’unico aspetto veramente messo a fuoco da von der Leyen, la transizione energetica ha (e non può non avere) dei costi che vanno riconosciuti, stimati e minimizzati. Sottovalutarli, negarli o ignorarli, come è stato fatto, finisce per danneggiare l’industria europea e, con essa, le prospettive occupazionali e di crescita degli europei. E’ dunque fondamentale valutare con attenzione i costi e i benefici delle singole proposte, cercando di mitigarne gli impatti negativi. Ma sarebbe sbagliato pensare che ciò equivalga semplicemente a stanziare dei fondi per compensare coloro che sono direttamente colpiti dagli obblighi europei: spesso i finanziamenti hanno l’unico effetto di alimentare la crescita dei prezzi, con scarso effetto sull’ambiente e la competitività (come il Superbonus, che ne è un caso estremo, e che venne concepito proprio nel nome della crescita e dell’ambiente). Piuttosto, occorre tenere conto delle capacità di adattamento delle imprese.
Obiettivi irrealistici e costi insostenibili sono figli dell’arroganza politica di chi, innamorandosi di una specifica tecnologia, pensa che sia una buona idea imporla a 360 gradi, senza considerare che possono esserci differenze, incertezze e peculiarità (come accadde nel caso dello scellerato regolamento sul packaging). Per raggiungere un obiettivo epocale come la decarbonizzazione ci vuole umiltà, non si può cedere alla presunzione fatale di conoscere, e dunque la forzatura di imporre, quali tecnologie utilizzeremo nei prossimi decenni. Allo stesso tempo bisogna evitare di rispondere ai problemi con problemi maggiori: il Cbam, il dazio sull’impronta carbonica dei beni importati, oltre a causare enormi costi amministrativi alle imprese e a costringerle a dichiarare sotto la propria responsabilità dati che non possono verificare, era nato per proteggere i produttori domestici dalla concorrenza estera. Finirà per proteggere i produttori esteri dalla concorrenza europea sui mercati stranieri.
Le politiche vanno giudicate dagli effetti. Le ottime intenzioni europee si sono tradotte, negli stati membri, in incredibili sperperi di denaro, che hanno zavorrato la crescita economica, appesantito i bilanci pubblici e ottenuto finora benefici ambientali sproporzionatamente bassi rispetto ai costi sostenuti
Il premio Nobel per l’economia, Milton Friedman, diceva che le politiche vanno giudicate dai loro effetti, non dalle loro intenzioni: le ottime intenzioni europee si sono tradotte, negli stati membri, in incredibili sperperi di denaro, che hanno zavorrato la crescita economica, appesantito i bilanci pubblici e ottenuto benefici ambientali sproporzionatamente bassi rispetto ai costi sostenuti. Chi prende sul serio la transizione dovrebbe preoccuparsi almeno altrettanto dell’efficienza e delle conseguenze delle politiche intraprese nel suo nome.