La formula magica di Casaleggio per stregare l’uomo del palcoscenico e le tragicomiche parlamentarie. Il feticcio dello streaming e il giorno in cui gli eletti hanno capito di essere altro dal Blog. Il paradosso dei “movimentisti” ancora fedeli a Grillo, che oggi invitano ad astenersi dal voto online
Doveva venire giù tutto – il mondo per come lo si conosceva, il Parlamento, i politici ladri da far uscire dalla Camera “con le mani alzate”, i processi di selezione della classe dirigente, le ospitate in tv, il modo di votare, discutere, decidere. Doveva essere tutto nuovo, tutto partorito e scaturito dalle viscere digitali di mastodontici server, così si diceva, e così diceva Beppe Grillo, già comico, poi gran ciambellano del passaggio a quella che doveva essere l’epoca d’oro e l’Eldorado della web democrazia. E lui, proprio lui che i computer li distruggeva sul palco, quando ancora riempiva i palazzetti con la satira, ma senza velleità politiche, aveva preso a manifestarsi agli adepti dietro uno schermo, dopo l’incontro con il tecno-guru Gianroberto Casaleggio, colui che, dal marketing internettiano o dalle camminate nei boschi, aveva tratto la formula magica per stregare l’uomo da palcoscenico, al punto da farlo parlare da ventriloquo del nuovo ordine e del nuovo paradigma: uno vale uno, dal web.
Doveva venire giù tutto, invece c’è stata l’implosione, con i Cinque Stelle che escono dallo schermo, ma non per amore di una spettatrice, come il protagonista de “La rosa purpurea del Cairo” di Woody Allen, piuttosto per togliere di mezzo lui, Grillo, ma soprattutto l’armamentario che il duo Grillo-Casaleggio aveva messo in piedi ai tempi dello Tsunami tour, tra la fine del 2012 e l’inizio del 2013, nella prima campagna elettorale trionfale in cui l’estrema fisicità titanica – l’ex comico che attraversa a nuovo lo stretto di Messina, prova muscolare, o l’ex comico che fa comizi in piedi su una cassetta della frutta, prova leaderistica di voce e postura – si alternava all’estrema smaterializzazione: le “parlamentarie”, selezioni via internet dei candidati deputati e senatori, una cosa mai vista (per fortuna o per sfortuna, a seconda dell’occhio di chi guardava) e per questo venduta come novità catartica capace di cambiare il concetto stesso di rappresentanza — e di cancellare le storture presunte della democrazia imperfetta e terra-terra delle scuole di partito con selezione e gavetta da consigliere di municipio a consigliere comunale, da consigliere comunale a consigliere regionale e così via fino al Parlamento, per i più fortunati e anche per i più furbi, quelli che fiutavano il vento e le correnti.
Implosione, dunque, undici anni più tardi: i Cinque Stelle, usciti dallo schermo, passati per la realtà e per due governi, si materializzano in caminetti e segrete stanze, lontano dal web e vicino a Giuseppe Conte, l’ex premier, professore e avvocato non selezionato via internet, ma cresciuto nel consenso per passa-parola tra i grillini del secondo giro, quelli eletti nel 2018. Pareva un’evoluzione (“i grillini diventano un partito vero”), è finita prima in scissione (vedi Luigi Di Maio), poi chissà. Chissà che cosa resterà del giorno in cui Beppe Grillo è stato rottamato da un’assemblea contiana, con voto online, sì, ma con ricasco di polemiche sulla fuffa: non sarà stato indirizzato e piegato, quel voto, fuori dal web, alle esigenze di una parte in causa? Non a caso, Grillo si aggrappa ora disperatamente al mondo di ieri: il web da cui attende un controvoto che freni o contrasti la sua cacciata dal trono di garante ed ex fondatore, nel momento in cui la cosiddetta democrazia del web è stata già spazzata via, tanto che ora i sostenitori di Grillo invitano all’astensione quelli che dovrebbero votare al secondo round della consultazione telematica richiesta proprio da Grillo.
Si poteva capire che sarebbe finita così, nel 2013? Gli indizi c’erano, ma l’ubriacatura della novità prevaleva, con la sua prepotenza mediatica. Non pareva possibile che fosse accaduto, e invece era accaduto, e l’euforia da esperimento riuscito spargeva speranza e supponenza nel quartier generale della Casaleggio Associati: vittoria, si pensava, vedendo le centinaia di sconosciuti che entrano in Parlamento per “aprirlo come una scatola di tonno”, dopo essersi auto-candidati online con video spesso tragicomici, e dopo essere stati vidimati in collegamento Skype dall’ex comico. C’era quello che si faceva il sapone da solo, essendo però anche tecnico Rai (Stefano Vignaroli); quella che scriveva stornelli dalla segreteria di uno studio medico (Paola Taverna); quello che la sapeva lunga, anche reporter (Alessandro Di Battista) e quella che si presentava come brava scolaretta (la giovanissima Marta Grande). C’era il diavolo, l’acqua santa, il disoccupato, il laureato, la mamma, l’operaio, il professore, il commesso. Avevano votato in 95mila per 1400 candidati, scegliendo i concorrenti per la lotteria parlamentare, e già allora qualcuno dubitava: non ci sarà stato taroccamento? Eppure il dubbio non attecchiva: troppo forte era l’attrazione per il meccanismo, poi rivelatosi perverso, che con trecento voti espressi con un clic mandava alla Camera o al Senato un perfetto sconosciuto, a quell’epoca anche convinto che l’essere sconosciuto fosse un valore aggiunto. Una volta spediti in Parlamento gli eletti, costoro e gli osservatori attendevano con ansia religiosa il post di Grillo con le istruzioni per l’uso della nuova vita e del nuovo lavoro (per alcuni, primo lavoro che potesse chiamarsi tale). E i nuovi marziani, neodeputati e neosenatori, avevano persino paura di essere intervistati, da cui scene incredibili di inseguimenti tra cronisti e ed eletti grillini, occultati da comunicatori cerberi in ascensori, aule, corridoi e sottoscala dei Palazzi.
Si attendeva con trepidazione, previo annuncio sul web, la comparsa di Grillo a Roma, unica concessione fisica nella realpolitik smaterializzata. E quando compariva on line, illuminato dalla luce caravaggesca di casa sua, Grillo spesso sbraitava, memore del palco reale e attore grandguignolesco sul palco immateriale: attenti ai lupi (i giornalisti), diceva ai suoi, intimando il surreale divieto di talk-show. Citava “Zanna Bianca” sul suo blog: “Nel libro di Jack London una lupa attrae ogni notte un cane da slitta nella foresta. Chi cede al richiamo viene condotto lontano dal fuoco e divorato da un branco di lupi appostati in attesa nella neve”, scriveva l’ex comico, riferendosi ai conduttori televisivi, “dipendenti a tempo pieno di Pdl e Pdmenoelle”: “Il loro obiettivo è, con voce suadente, sbranare pubblicamente ogni simpatizzante o eletto del M5S e dimostrare al pubblico a casa che l’intervistato è, nell’ordine, ignorante, impreparato, fuori dalla realtà, sbracato, ingenuo, incapace di intendere e di volere, inaffidabile, incompetente. Oppure va dimostrato il teorema che l’intervistato è vicino al Pdmenoelle, governativo, ribelle alla linea sconclusionata di Grillo, assennato, bersaniano”.
Non per niente Grillo alludeva al povero Pierluigi Bersani, leader pd cui era toccata in sorte la summa della surrealtà nella presunta web-democrazia: il dialogo-non dialogo (o dialogo tra sordi), rigorosamente in streaming, con i neoeletti e allora capigruppo m5s Vito Crimi e Roberta Lombardi (oggi il primo pare pronto a rientrare, grazie all’eliminazione contiana del divieto di terzo mandato; mentre la seconda è tornata alla vita pre-grillina). Gli schermi dei pc, allora, trasmettevano in diretta il colloquio desolato tra l’allora segretario del Pd, con a fianco l’allora vicesegretario dem Enrico Letta, e i due neofiti, lei maestrina e lui in modalità orso che finge di dormire, mostrando il disperato tentativo pd di trovare una maggioranza governativa per il “governo del cambiamento” che mai vide la luce. I due, Crimi e Lombardi, lei con risolini di sufficienza, lui con sguardo interrogativo, dicevano no (“nemmeno se Bersani si mette in ginocchio”; no alla “fiducia in bianco”) e consegnavano senza saperlo ai posteri il primo momento in cui il partito del web trascinava sul web un partito in carne e ossa, con risultati disastrosi per tutti, e per il paese prima di tutto. Quel 27 marzo 2013 è rimasto il punto – più basso? più estremo? – di finta democratizzazione dei processi decisionali, in un’Atene digitalizzata e posticcia in cui si decideva in teoria tutti insieme online, quando in pratica i decisori erano solo due, sempre loro: Grillo e Casaleggio, chiusi in un’ufficio di Milano e non eletti da nessuno. Qualcuno, in quel momento, da fuori, pensò che un futuro orwelliano stesse bussando alle porte, tanto più che Casaleggio mandava in rete video deliranti sul pianeta Gaia, quasi un film politico distopico, e Grillo ci metteva del suo: il divieto di talk show avrebbe infatti presto prodotto vittime da processare online. Caso di scuola, la cacciata (con processo sempre in streaming, sulla web tv “La Cosa”, per circa ventimila spettatori) del senatore m5s Marino Mastrangeli da Cassino, reo di comparsata a “Pomeriggio Cinque” di Barbara D’Urso. E il processo – con urla, strepiti, gente che si sbracciava – decretava l’espulsione dal M5s del colpevole di partecipazione a un talk show con una piazzata da talk show, previo post severissimo di Crimi. Solo l’allora già vicepresidente della Camera Luigi Di Maio, in diretta online, si mostrava più democristiano del re: “C’è grande difficoltà degli attivisti a sentirsi rappresentati da quello che dici, Marino, non possiamo fare altro che inibirti dal rappresentare il M5S”. Lui, Mastrangeli, per tutta risposta andava in onda a schermi unificati, da La7 alla Rai a Mediaset, a difendersi dalle accuse e a paragonarsi a Bruce Lee: “Ne atterro cinquanta alla volta”, diceva, assurgendo in un attimo a mito trash. La sentenza arrivava presto: espulsione decisa con 62 sì, 25 no e 3 astenuti, con successiva convalida degli iscritti.
Passavano poche settimane, e il secondo caso di scuola si affacciava alla ribalta del web: di nuovo streaming per l’assemblea congiunta degli eletti di Camera e Senato, stavolta per decidere la defenestrazione della senatrice emiliana Adele Gambaro, colpevole di aver criticato dai microfoni di Sky Tg 24 l’ex comico, giudicandolo responsabile del fallimento elettorale del M5s alle elezioni amministrative appena successive al “boom” delle Politiche. “Io ho una sola voce”, diceva Beppe Grillo, chiedendo agli italiani “di incazzarsi”, deluso della delusione tipica dell’attore stanco, ex Riccardo III che non riesce più a incenerire chiunque si frapponga sulla via della presa del potere. Ma come si permette, questo esercito di terracotta che ho creato io?, sembrava dire Grillo nelle apparizioni spiritate sul blog, ologramma di Mangiafuoco che già aveva sputato fuoco e fiamme contro i primi disobbedienti, Federica Salsi e Giovanni Favia, mesi prima. Erano forse le avvisaglie della caduta nella polvere che aspettava il leader, quelle impuntature degli eletti modello Gambaro, quel sentirsi qualcuno a dispetto del demiurgo, quel sentimento di sé in capo a chi era passato dallo schermo alla vita politica reale? Non l’avevano capito prima, i suoi adepti e i suoi parlamentari, che Grillo era e restava un attore prima di tutto, e quindi umorale e ombroso, a volte euforico e a volte in preda allo spleen da lesa maestà, come quando Stefano Rodotà – il prescelto dal M5s come candidato della Repubblica (“Rodotà-tà-tà”, era il grido unanime sul web) lo aveva criticato non da un blog, ma sul Corriere della Sera, dopo che Grillo, proprio in nome di Rodotà, nei giorni del 2013 precedenti all’elezione del nuovo presidente (poi fu bis di Giorgio Napolitano), aveva minacciato online di marciare su Roma? E per fortuna poi l’ex comico fu fermato fisicamente sul limitare del raccordo Anulare, a un passo dall’esplosione di una piazza Montecitorio fuori controllo. L’uomo che voleva fare “la Rivoluzione francese senza ghigliottina” ma con il politometro, strumento di terrore fiscale internettiano, e con la condanna ai lavori socialmente utili per i “ladri” della casta, rivolgeva al suo idolo Rodotà, dal blog, parole d’ira (“ottuagenario miracolato”). Ma come, non si può esprimere neanche un’opinione?, trasecolavano gli eletti a Cinque stelle, alcuni dei quali si dicevano “disperati” di fronte alla scelta: espellere o no la senatrice Adele Gambaro? Ma Grillo si arrabbiava sempre più, molto di più, e minacciava di togliere l’uso del simbolo ai disobbedienti, come si toglie il filo al burattino. Ora però — Nemesi o errore di valutazione politico — il simbolo rischia di essere scippato proprio a lui, già privato del ruolo di garante da una votazione contiana. Strano caso, ma non troppo, vuole oggi che Grillo, l’uomo della web-politica, venga metaforicamente protetto via social dai seguaci rimasti, i cosiddetti movimentisti non contiani, i suddetti agit-prop dell’astensione: non votate online tra il 5 e l’8 dicembre, scrivono; state lontani dalle tastiere; andate, letteralmente, per funghi. E il cerchio si chiude per Grillo, cui resta ormai soltanto la battaglia legale con l’azzegarbugli Conte, ma soprattutto per quel sogno-incubo webpolitico.