Alla fine del 1938 nella città risiedevano 45 ebrei: ventinove di loro furono deportati e uccisi negli anni della Shoah. I loro nomi sono riportati nel luogo nel piccolo viale che il visitatore deve attraversare per accedere alle tombe
Il Talmùd riporta molti racconti di persone anche semplici, e perfino di persone che agli occhi di tutti sembravano dei peccatori, delle quali, in situazioni di difficoltà, il Signore aveva esaudito le preghiere”, scrive il rav Adin Steinsaltz. Arriviamo al piccolo cimitero ebraico di Saluzzo in un pomeriggio di fine novembre, una giornata fredda, limpida di vento, il sole ormai chino che sfiora con i suoi raggi dorati il lungo muro che costeggia una strada. Due mondi vivono uno accanto all’altro: la strada con il suo traffico denso, indifferente e quel lembo di terra quasi dimenticato eppur così verde anche in quest’inizio d’inverno. Vediamo arrivare Renato, l’anziano custode, mentre siamo ancora fuori dal cancello ad aspettare: sembra anche lui portato dal vento, misteriosamente, con percorso imprevedibile, più che arrivare compare. “Dov’era? – ci chiediamo non vedendo alcuna altra porta che il cancello davanti al quale siamo, nessuna costruzione all’interno, niente.
E come una foglia anche Renato sembra seccato dal tempo, 42 anni che fa il custode del cimitero ebraico, nove sepolture in tutto al confronto con le quasi seimila che ha fatto come becchino del cimitero cattolico. Il tempo l’ha reso curvo sebbene non sia mai stato alto, gli ha lasciato però un sorriso infantile che incanta e con il quale accompagna qualche timida battuta di un umorismo molto ebraico che lui, cattolico, deve aver assorbito tra le lapidi senza immagini di questa terra sacra. Il fluire delle sue parole definisce fatti e persone con quella sincera schiettezza che il mondo di oggi sembra avere mascherato per tentare di smussare angoli senza i quali poco si comprende della realtà, a cominciare da quel “sono stato becchino” che ci riporta all’infanzia, quando in un altro cimitero piemontese mia nonna ci invitava a dare la mancia allo “strau” (il becchino, appunto, in dialetto monferrino) perché ci tenesse in ordine i fiori della tomba di famiglia. Discretamente Renato si fa da parte vedendoci allontanare verso le pietre verticali, tutte grigie, alcune un po’ storte, molte con scritte in caratteri ebraici accanto ad altri italiani. Lattes, Levi, Segre, Tedeschi, Valabrega: “shemòt”, nomi di persone che hanno compiuto un esodo, che hanno attraversato (l’ebreo per definizione è “colui che attraversa”) questo scampolo di Piemonte restando fedeli alle loro radici. Le tombe sono poche, nell’erba incolta e ormai immerse nella luce della sera.
Alla fine del 1938 a Saluzzo risiedevano 45 ebrei, le stesse famiglie che solo dopo il 1848 poterono abitare al di fuori dell’antico ghetto con “pacifica e costruttiva integrazione” rispetto alla popolazione non ebrea, come recita una piccola targa nel centro della cittadina. Ventinove persone furono deportate e uccise negli anni della Shoah. I loro “shemot” sono riportati nel cimitero ebraico lungo un piccolo viale che il visitatore deve attraversare per accedere alle tombe. I passi si susseguono, i pensieri rincorrono i nomi, le vite di queste persone: oggi a Saluzzo, ci dice Renato, di ebrei non ce ne sono più. I pochi rimasti sono andati ad abitare a Torino. Qualche decennio fa la città del marchesato pose di fronte a ogni casa dalla quale qualche ebreo era stato prelevato per essere deportato e ucciso una piccola targa, a formare quelle che con felice intuizione vennero allora definite “le tracce del ricordo”. Ad esempio in via Spielberg 27: Pia Levi di anni 45, Amelia Levi di anni 17, Lelio Levi di anni 23, Adele Segre di anni 58, Annetta Levi di anni 56. “Far toccare la concretezza di una tragedia enorme sviluppatasi un passo dopo l’altro nella banale quotidianità della vita di ognuno, senza che nessuno la fermasse per tempo, per indifferenza, per viltà, per convenienza, o perché si era persuasi dalla propaganda che fosse giusto così – si legge nella targa nel centro di Saluzzo – Far riflettere su quante tragedie di oggi muovono i loro passi intrecciandoli con il nostro vivere passivo e smemorato”.
Il passato ritorna, gli “shemot” risuonano dentro di noi anche mentre rientriamo a casa. Indifferenza, viltà, convenienza, propaganda: le parole sono pietre posate sulla lapide della nostra memoria, nessuno si può permettere di toglierne nemmeno una, soprattutto oggi. Tav, nun, tzàde, bet, he: un acronimo si legge in lettere ebraiche su quasi tutte le lapidi. “Possano le loro anime essere avvolte dai legami della vita”.