“Non vorresti mica avere una madre logica?”. La grandezza di Mansfield

I racconti della scrittrice neozelandese ritornano in libreria con una nuova raccolta. Tragedie piccole e grandi di un quotidiano raccontato con la spietatezza di una prosa ai limiti dell’impalpabile, strumento di un’autrice che davanti al bene e al male fa di tutto per non armarsi, raccontandoceli senza filtri

Piante che fioriscono ogni cent’anni e tutte quelle stelle, perline, bollicine che accendono l’aria e il cielo: la raccolta di racconti di Katherine Mansfield, Pura felicità, mantiene la promessa del titolo in ognuna delle sue lucenti righe, sia che riguardino la pulsante saga familiare dei Burnell sia che raccontino dei turbamenti sociali, etici e esistenziali della giovane Laura mentre, nel paradiso in terra del prato di casa, prepara “La festa in giardino” ma non riesce a non pensare al pover’uomo morto pochi metri più in là. Slanci e battute d’arresto, sensualità e un amore per il mondo pervicace nonostante la scoperta della fine tragica delle cose, mentre la natura, insolente, non smette di rigenerarsi sono la materia di cui la grande scrittrice neozelandese alimenta le sue storie.



Sara De Simone e Nadia Fusini hanno fatto un lavoro eccellente nel restituirci tutta la grandezza di Mansfield, ormai salva dall’ombra che inspiegabilmente la lambiva, in questa raccolta di racconti – ci sono anche delle foto, l’immersione è assoluta – pubblicata da Feltrinelli. “Com’era assurda la vita – risibile, semplicemente risibile. E perché questa sua mania di vivere comunque? Perché era davvero una mania, pensò, scherzando e ridendo tra sé”, scrive Mansfield, e questa mania si fa largo tra le tragedie piccole e grandi di un quotidiano raccontato con la spietatezza di una prosa tersa ai limiti dell’impalpabile, strumento di un’autrice che davanti al bene e al male rimane disarmata e anzi, fa di tutto per non armarsi: ce li racconta come vengono, senza filtri.

Si parte con il trasferimento in campagna di Preludio, “l’atto tremendo” di lasciare la vita cittadina per andare tra pecore, uccellini, anatre con o senza la testa, in un mondo naturale esuberante che impone ai personaggi un continuo confronto con il creato e la sua spontaneità, e con una pace che a loro è preclusa. Nel nostro paradiso tra i nasturzi non possiamo mai starcene tranquilli a contare i petali, che “ecco che arrivava la Vita e ti portava via”, come “una ventata, l’afferrava, la scuoteva; doveva andarsene. Oh, sarebbe stato sempre così? Non c’era scampo?”. E con la vita arrivano i rischi, la gioia e il suo contrario, entrambi sfuggenti, come la felicità, quel sentimento che punta “come se uno, di colpo, avesse inghiottito un frammento di quel sole”. E’ proprio così? Le donne di Mansfield se lo domandano in continuazione e nella purezza della loro ricerca risiede la loro verità inossidabile. La buona società neozelandese si muove in un mondo illuminato da raggi larghi e “tremendi a vedersi” perché “ti ricordano che lassù siede Geova, il Dio geloso, l’Onnipotente, il cui occhio ti osserva sempre vigile, mai stanco. E ti ricordi che quando Egli verrà, tutta intera la terra tremerà fino a rovinare in un cimitero; angeli freddi e luminosi ti trascineranno di qui e di là, e non ci sarà tempo di spiegare quello che sarebbe semplice da spiegare…”.

Ma di semplice non c’è mai niente, l’unica è prendere spunto da quello che ci circonda. “Così si doveva vivere – in modo spensierato, spericolato, mettendosi in gioco” come quando si fa il bagno tra le onde, “senza lottare con l’alta e bassa marea della vita”, ma non è anche questa una saggezza scivolosa, perché basta fermarsi troppo in acqua e si prende freddo e siamo lì di nuovo a chiederci come fare. “Se fosse stata felice, avrebbe avuto una vita sua, la vita falsa sarebbe cessata”, e la vita falsa è anche fatta del gioco sociale, di personaggi che si comportano in modo orribile e che Mansfield racconta nella loro essenza. Senza mai dimenticarsi di farti ridere: “Bambina mia, non vorresti mica avere una madre logica? Su, smettila”.

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