La “genocide inversion” è una tattica sovietica, ma non vogliamo ricordarlo

Liliana Segre ha sottolineato “il compiacimento, la libidine con cui troppi sembrano cogliere un’opportunità per sbattere in faccia agli ebrei l’accusa di fare ad altri quello che è stato fatto a loro”. E questa inversione fu operata dai capi comunisti per la prima volta

Riporto una frase esemplare di Liliana Segre sulla questione del genocidio, dal Corriere della Sera di ieri: “Solo coprendosi occhi e orecchie si può evitare di percepire il compiacimento, la libidine con cui troppi sembrano cogliere un’opportunità per sbattere in faccia agli ebrei l’accusa di fare ad altri quello che è stato fatto a loro”. Gli studiosi dell’antisemitismo hanno coniato un nome per questa tattica: genocide inversion. E’ una delle tante polpette avvelenate preparate nelle cucine dell’ex Unione Sovietica (pochi ormai sembrano aver voglia di ricordarlo, ma da quel mondo frettolosamente archiviato abbiamo ereditato un buon numero di schemi ideologici che usiamo tuttora per interpretare – e soprattutto per fraintendere – il mondo). Deborah Lipstadt fissa l’origine di questo espediente nella tarda primavera del 1967, una settimana dopo la fine della Guerra dei sei giorni, quando i capi comunisti definirono l’allora ministro della difesa israeliano Moshe Dayan “allievo di Hitler”. E’ un’infamia che sta per compiere sessant’anni. Segre fa bene a non limitarsi a criticare l’abuso della parola genocidio sul piano fattuale e giuridico, ma a sottoporlo anche a una critica psicologica. La “libidine” manifesta – e per questo un po’ oscena – che anima i sostenitori dell’inversione ha infatti qualcosa di misterioso, è un calderone psichico in cui nuotano tutti i germi dell’odio antiebraico. Ma ancor più delle spinte profonde o inconsce di chi taccia Israele di genocidio dovrebbero interessarci gli usi sociali di queste accuse. Anche per questo aspetto gli studiosi dell’antisemitismo hanno creato un’etichetta utile: Jew-baiting. Sono esche per irritare e offendere gli ebrei. Potremmo battezzarlo l’antisemitismo passivo-aggressivo.

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