Maradona e quei colpi di genio improvvisi che non gli venivano solo in campo. La più grande tempesta dialettica della storia contemporanea, per ripagare tutta l’acrimonia e il livido rancore che la stampa gli aveva riversato contro
Cos’è il genio? È fantasia, intuizione, decisione e velocità di esecuzione. Ma anche il genio ha bisogno di un innesco, di qualcosa che lo metta in azione. Per Duilio Del Prete in quell’immortale Amici Miei fu, appunto, un “bisogno”. Altre volte può essere un semplice passaggio, un gesto minimo che permette al genio di esprimersi al massimo della sua esplosività. Hector Henrique ricorda sempre che fu lui a passare il pallone a Diego Maradona prima che il genio di Lanus decidesse di fare slalom tra le albioniche divise e poi depositare alle spalle del non ancora vecchio Shilton. Henrique ha sempre reclamato, con una discreta dose di ironia, la paternità di quell’assist. Era il 1986 e in quel caso il trasferimento fu diretto, nel senso che il passaggio di Henrique, nel suo genere fondamentale, fu l’ultimo atto di un essere umano prima che dal Monte Olimpo il divino Zeus decidesse che quello con la dieci sulle spalle entrasse in una dimensione diversa da quella terrena.
Quel che accadde quindici anni fa è invece frutto di un ragionamento più che di una azione. Ma fu una chiara conseguenza. Un gol che decise una partita e una qualificazione ai Mondiali di calcio fu il detonatore per una delle più surreali e, appunto, geniali conferenze stampa della storia della comunicazione. E quel gol lo segnò l’eroe che non ti aspetti, il milite ignoto che in un coacervo di talento, classe, ma anche di normalità, trova il colpo d’ala per entrare nella storia. Senza però rimanerci perché il destino del normodotato è sempre quello di vivere di luce propria solo per il tempo che l’extraterreno gli concede. E quella notte, nei corridoi dello Stadio del Centenario di Montevideo, si stava caricando di pensieri la più grande tempesta dialettica della storia contemporanea.
È il 14 ottobre del 2009 e l’Argentina ha le spalle al muro. Qualificazioni per i Mondiali 2010 in programma in Sudafrica. A guidare l’Albiceleste c’è Lui, Sua Eccellenza Diego Armando Maradona. “Salve a tutti, quello che avete di fronte è un uomo tornato dall’inferno”. Decise un tratto simile ad Al Pacino in Ogni maledetta domenica per dare la carica ai suoi prima della partita contro la Bolivia a La Paz. Li portò oltre 3.000 metri sul livello del mare dopo un paio di amichevoli vinte con Scozia e Francia e un confortante 4-0 al Venezuela. Non aveva ancora preso un gol. In Bolivia finì 6-1. Per gli altri. Forse gli sarebbe stato utile farsi raccontare cosa fece un suo illustre predecessore sulla panchina dell’Argentina. Omar Sivori, per dirne un altro discretamente dotato di sinistro e personalità, nel 1973 aveva come missione qualificarsi per i Mondiali in Germania del 1974. “El Cabezon” estrasse dal cilindro questa trovata. Doveva giocare due partite ravvicinate, una a livello del mare e l’altra ai 3.650 metri di La Paz. Divise la squadra in due, ne convocò un numero superiore al solito e allestì due Nazionali differenti. La prima, in larga parte formata dai giocatori titolari, si allenava ai suoi ordini a Buenos Aires e pareggiò ad Asunción con il Paraguay il 16 settembre. I giornali argentini battezzarono la seconda “Nazionale da montagna” e fu portata di nascosto dal suo secondo ad acclimatarsi in quota. Il 23 settembre i montanari riuscirono a vincere 1-0 nell’aria rarefatta boliviana grazie a un gol di tale Oscar Fornari. Beninteso, carriera di Fornari con la Nazionale argentina: una partita, un gol. Mai più rivisto. Gioco, partita, incontro.
Diego questa storia evidentemente non la conosceva, o se la conosceva forse non voleva fare come Sivori, del quale condivideva l’astio verso Perón e poco altro. Se in campo era stato Zeus, in panchina “El pibe” assomigliava purtroppo a una caricatura di se stesso. La stampa argentina lo massacrava e anche se la classifica tutt’altro che pingue era condivisa con la guida del suo predecessore, Alfio Basile (sconfitte con Cile e Colombia e un sacco di pareggi), il bersaglio Diego era bello grosso. Di nome e anche, tristemente, di fatto. Con tutto quel talento in attacco (Messi, Higuain, Di Maria e Tevez) e con Veron e Mascherano a centrocampo solo un pagliaccio (scrissero anche questo) in panchina poteva fallire. Tutto si sarebbe deciso a casa dell’Uruguay. Ultima giornata, chi perde avrà lo spareggio playoff. Ma con un rischio che per gli argentini si trasformasse in uno schiacciasassi ambientale. E così arrivò il 14 ottobre 2009, stadio del Centenario senza una piuma che potesse posarsi cadendo dal cielo. L’Argentina ha 25 punti, la Celeste 24. Oscar Washington Tabarez è per qualità tecniche, conoscenze e profondità di pensiero e linguaggio l’uomo giusto per “asar” il suo pingue vicino di panchina. Diego è intabarrato in una giacca a vento che lo avvicina più all’omino Michelin che a un commissario tecnico. Porta addirittura una specie di mantello rosso avvolto attorno al collo, forse un fratino tagliato sui lati e segue ogni azione come se volesse entrare in campo posseduto dallo spirito dell’uomo che fu.
L’Uruguay attacca, quelli di Diego tengono duro finché possono, ma ci vorrebbe qualcosa per alleggerire ogni tanto la pressione, per tenere Suárez e Forlán un po’ più lontani. Tabarez ha messo dentro anche Cavani mentre Diego, al quale va bene anche il pareggio, ha già tolto Di Maria e Higuain mettendo Monzon e Bolatti. Un terzino e un mediano per due punte, roba da Trapattoni deluxe. Resta davanti solo Messi, triste solitario y final. Minuto 37 e 42 secondi. Martin Caceres perde una sanguinosa palla in mediana e dopo che Gutiérrez gliel’ha fumata andando sulla fascia l’uruguagio non può che stenderlo. Calcio di punizione decentrato, 31,4 metri di distanza dalla porta difesa da Muslera. Messi si prende tutto il tempo che gli concede l’arbitro, finta un cross come ci fosse in mezzo Higuain (e tutti vanno dentro in area) e invece la appoggia di lato a Veron, libero. Con grande spazio “La brujita” può sparare il suo destro. La palla incoccia uno dell’Uruguay in mischia e arriva di sponda a Bolatti poco più avanti rispetto al dischetto del rigore. Mario Ariel Bolatti, detto “el Gringo” per la capigliatura bionda e la stazza da corazziere, in futuro passerà anche 22 domeniche con la maglia della Fiorentina. “La primera que toco Bolatti”, urla Victor Hugo Morales dopo una raffica di “Argentina Argentina Argentina” un istante dopo che il destro dell’eroe inatteso si infila nella rete.
Il Mondiale è salvo.
Diego esulta come un bambino e abbracciando uno dei suoi assistenti cade anche pesantemente per terra. La regia pietosamente stacca l’inquadratura e lo ripropone mentre urla esultante verso lo spicchio di Centenario riservato ai tifosi argentini. Ma il colpo di genio non c’è ancora stato. Aveva covato quel momento come nemmeno una chioccia con i suoi pulcini. Sentiva che tutta quell’acrimonia, quel livido rancore che i “periodisti” gli avevano riversato contro andava in qualche modo ripagato. Ed eccolo davanti ai microfoni, non più imprigionato nella giacca a vento, ma con una t-shirt e davanti due bottiglie di Coca-Cola. Diego è come quando Henrique a Città del Messico gli porge la sfera. Si carica, salta il primo avversario dicendo che questo successo è per il popolo argentino, SOLO PER IL POPOLO ARGENTINO. Rimarca facendo capire che quella volata verso la porta è appena iniziata. Poi ecco che lucida il suo sinistro: io ho memoria del fatto che mi avete trattato come immondizia (“basura”, dice). E da lì in poi è poesia, arte pura in uno stato di grazia dialettico che mescola Baudelaire a Charles Bukowski. “Con el perdon de la damas” è l’incipit del suo capolavoro. Condito da una alzatina di spalle come a dire: “Io vi ho avvertiti”. Il diluvio universale può scatenarsi: “Que la chupen. Y que la sigan chupando. Yo soy blanco o negro, gris no voy a ser en mi vida. Ustedes me trataron como me trataron. Sigan mamando”. Final. Eterno.