Dall’erba alla pista, tra vendette e silenzi. È lunga la lista degli sportivi con il cuore appesantito da rapporti complicati con quei genitori che li volevano campioni a tutti i costi
Sono i padri nello sport e i padroni dei campioni. Tamberi, Agassi, Verstappen, Scamacca. La lista è lunga, molte volte resta riservata, altre no. Storie di sportivi e dei loro rapporti con i genitori. Per niente facili, uomini e donne sempre troppo occupati a caccia di un oro, di un nuovo primato. Iniziano con uno sport che è un gioco. Finiscono con un’agenda che è solo fatica e sudore, caccia a medaglie, tornei dello Slam. Vite che dopo aver superato il traguardo sembrano sprofondare nei rimpianti. La storia di Gianmarco Tamberi non è l’unica, ma neppure una delle tante. È solo l’ultima e si riassume bene in una doppia ossessione: i suoi giochi da bambino e i Giochi di Parigi, dove voleva conquistare un altro oro. Lo chiamano Gimbo e lui sogna di essere ancora un bimbo, non gli importa di avere ormai 32 anni, una medaglia d’oro al collo vinta ai Giochi di Tokyo 2020 e di averne conquistata un’altra tre anni dopo, campione del mondo a Budapest. Quel che gli manca è l’oro sfuggito a Parigi, dove da capitano perse anche la fede (nuziale), finita nella Senna durante la cerimonia d’apertura. Era arrivato ai Giochi secco come un baccalà appeso, le coliche renali hanno fatto il resto e addio medaglia. Immenso rammarico di Gimbo, che sogna.
Però c’è qualcosa di pesante sul cuore di un campione diventato (quasi) un’icona anche lontano da stadi d’atletica, asticelle e materassi? È il rapporto con suo papà Marco, buon saltatore, quindicesimo ai Giochi di Mosca del 1980, quelli del boicottaggio degli Stati Uniti. Padre e figlio non si parlano da un paio d’anni e sempre dal 2022 Marco ha smesso di essere l’allenatore di Gianmarco (forse anche questa assonanza di nomi doveva essere una spia d’allarme). Quel che resta del rapporto tra padre e figlio, il campione olimpico lo ha raccontato sullo sgabello di Belve, programma (questo sì davvero cult) di Raidue. Interrogato da Francesca Fagnani, l’altista ha saltato qualsiasi ostacolo e confessato, in rapida successione: “Non avere più nessuno rapporto con mio padre è il fallimento più grande della mia vita, mi sono sentito tradito dalla figura genitoriale” e i punti bassi del loro rapporto “sono stati veramente tanti ed è questo il motivo che ha deteriorato così tanto il rapporto che ora è difficile metterci delle pezze”. Poi la confessione che arriva da lontano, da bambino, da ragazzo: “Giocavo a basket, mio padre fece pressioni per il salto in alto”. Vinse papà. “Ma se tornassi indietro giocherei a basket e sarei un atleta più felice”. La confessione non è niente male per uno che saltando ha afferrato un’ Olimpiade e un Mondiale.
Niente male anche la conflittualità tra le leggenda più colorata della storia del tennis Andre Agassi e papà Mike, “padre-padrone” morto nel 2021, a novant’anni suonati, in un hospice di Las Vegas. Ad annunciare che se n’era andato fu proprio Andre. Prima quello che c’era da dire sul loro rapporto era già scritto in Open, forse la più bella autobiografia sportiva mai finita nelle librerie. Papà Mike non aveva avuto una vita facile, nato Emanoul Agassi, in Iran da padre armeno, era stato un discreto pugile, partecipò ai Giochi di Londra nel 1948 e a quelli di Helsinki nel 1952. Poi falsificò il passaporto, divenne Mike, volò a New York, si trasferì a Chicago, poi ancora a Las Vegas, fece con la moglie quattro figli. A quel punto lui, mica insieme alla moglie, decise che l’ultimo sarebbe diventato (almeno) 8 volte vincitore di uno slam. Obiettivo centrato. Però lo scontrino del conto lo trovi nelle pagine di Open. C’è anche la storia del “Drago”, quell’ infernale macchina lanciapalline introdotta in allenamento da papà Mike, quella che trasformò il gioco di Andre in un flipper. Racconta il campione: “Da ragazzino ho odiato il tennis, vivevo nella paura di mio padre, che mi voleva campione a tutti i costi. Mi diceva: “Se colpisci 2.500 palle al giorno, ne colpirai 17.500 alla settimana e quasi un milione in un anno. Un bambino che colpisce un milione di palle all’anno sarà imbattibile”. Poi fu (anche) per ribellarsi al padre che Andre si presentò sui campi con pantaloncini di jeans strappati, unghie dipinte di rosa, orecchini grossi come angurie. Papà si vendicò, in mille modi. Per esempio: quando nel 1992 Andre vinse l’unico Wimbledon della sua carriera, babbo telefonò e chiese: “Come hai potuto perdere il quarto set?”. Non aggiunse una parola.
Dall’erba alla pista, qui la famiglia Vestappen ne ha combinate delle belle. Come far diventare Max uno dei più grandi piloti nella storia della Formula 1? Sui metodi papà Jos ha sempre avuto idee particolari. E certo discutibili: “Cosa faceva? Beh, cose allucinanti, a fine giri obbligava il figlio a restare quattro ore con il casco in testa, altre volte lo prendeva a pugni e calci per ogni errore”, ha raccontato chi condivideva con la famiglia Verstappen le piste di kart. Difficile credere che sia stato questo a spingere Max verso il quarto titolo mondiale. Difficile pensare sia stato aiutato anche da altre follie di papà, come quella volta che lo abbandonò in una stazione di servizio nei pressi Salerno. La colpa del figlio? Essere arrivato secondo nel Mondiale di kart, che quell’anno di disputava a Sarno.
Le colpe di Gianluca Scamacca, attaccante dell’Atalanta e della Nazionale, ragazzo sensibile ed educato alla faccia degli stereotipi di bad boys? Nessuna, mica puoi imputare a lui se tre anni fa papà Emiliano entro nel centro sportivo di Trigoria con una mazza. Scamacca era cresciuto nella Roma e con mamma, mica con papà. Però nello sport certe volte finisce così, le colpe dei padri ricadono sui figli.