Come se non bastassero gli edifici di cemento armato che ti ritrovi ogni tanto tra le ambasciate e le no profit con i murales Black Lives Matter, c’è anche una mostra al National Building Museum che racconta del cemento washingtoniano
Washington DC: le casette in stile colonial di Georgetown, le townhouse post-georgiane di Adams Morgan, la Casa Bianca con le sue simmetrie palladiane, e poi tutta quella celebrazione dell’Atene che tanto piaceva ai padri fondatori e che ritroviamo nei grandi memorial che finiscono sulle calamite e negli sfondi dei Tg. Un po’ come quello dedicato a Lincoln modellato direttamente sul Partenone da Henry Bacon, che per due anni partecipò a spedizioni archeologiche tra Assos e i Dardanelli. Ma oltre a templi e colonne doriche, oltre al neoclassico atlantico, la città costruita a tavolino per l’attività politica, è anche una piccola patria del brutalismo americano. Come se non bastassero gli edifici di cemento armato che ti ritrovi ogni tanto tra le ambasciate e le no profit con i murales Black Lives Matter, c’è anche una mostra al National Building Museum che racconta del cemento washingtoniano: “Capital brutalism”. Sette edifici landmark della città, con foto del losangelino Ty Cole e rendering di studi architettonici come Brooks + Scarpa per immaginarli nel futuro. Perché questi scatoloni spesso non piacciono, e qualcuno vorrebbe migliorarli, abbellirli, renderli più green, perché non capiscono la loro bellezza visibile nella crudezza dei materiali o nella razionalità spaziale. La mastodontica sede dell’Fbi, che occupa un intero isolato downtown, l’anno scorso è stata scelta dagli americani come “il più brutto edificio del paese e il secondo più brutto del mondo”. Completato nel ’74, un critico disse che era “il set perfetto per una trasposizione cinematografica di 1984”. Al piano terra, dove potrebbero esserci delle botteghe, ci sono solo pareti di granito nerissimo che invitano a tenersi alla larga. Imponente e spaventoso, come la burocrazia applicata all’intelligence.
Ma queste meraviglie della Guerra fredda, costruite facendo trasferire forzatamente decine di migliaia di persone – quasi tutti afroamericani – forse non sono amate anche perché, in un paese a trazione liberale e libertaria, rappresentano la pesante fisicità dello stato. Fu John F. Kennedy a iniziare tutto quando, sulla decapottabile che gli porterà sfortuna, tornò dall’inaugurazione presidenziale lungo Pennsylvania Avenue. Vedendo palazzi in malora disse: bisogna fare qualcosa, di pratico e monumentale insieme. E così il suo successore, Johnson, portò avanti la trasformazione brutalista degli edifici pubblici. Palazzoni governativi, ministeri e agenzie, ma anche biblioteche e, il più curioso di tutti tra quelli in mostra, il grande edificio circolare che diventerà il museo d’arte Hirshhorn. Quando venne inaugurato, sempre nel ’74, il New York Times titolò a pagina intera: “Un’importante collezione in un ‘rifugio antiaereo”. C’è chi ancora lo chiama “la ciambella brutalista”, o lo inserisce tra le opere in “stile neo-penitenziario”. Ma la ciliegina sulla torta della cementificazione della capitale è la Metropolitana, visibile nei film di spionaggio con i suoi soffitti a volta a cassettoni dell’architetto Harry Weese – scendendo dalle scale mobili si entra subito in un mood da puntata di “The Americans” o da romanzo di Le Carrè.