Abbiamo toccato il Fondaco. La scommessa (persa) di sedurre gli intellettuali con lo shopping

Pensato come centro commerciale capace di unire cultura e acquisti, oggi il Fondaco dei Tedeschi a Venezia è in crisi. E ci ricorda come nel lusso non bastano le location scenografiche, ma serve soprattutto autenticità e legame con il territorio

La chiusura del Fondaco dei Tedeschi a Venezia arriva come regalo poco gradito per gli 80 anni (auguri!) del suo creatore Rem Koolhaas, il cui studio Oma lo aveva trasformato nel 2016 in un centro commerciale di lusso. Tra le polemiche sull’iconica scala mobile rossa e la discussa altana lignea, il progetto aveva già diviso critica e pubblico. Anche Vittorio Gregotti si era preso la briga di stroncarlo sulle pagine del Corriere.



Nato come tentativo di unire cultura e shopping à la Fondazione Prada o Magazzini Lafayette, il Fondaco era stato pensato per sedurre sia l’élite intellettuale che i turisti con carta di credito ben fornita. Ma l’ambizione culturale durò poco: il gruppo Benetton, dopo averne avviato la rinascita, lo affittò a Dfs Italy, controllata da Lvmh, che lo trasformò in un elegante duty-free con bar panoramico. E adesso chiude, lasciando tutti a chiedersi cosa sia andato storto. Secondo Ezio Micelli, professore allo Iuav ed ex assessore coinvolto nella vendita dell’edificio, “l’attuale gestore non era l’unico operatore in gara. Altre formule meno di lusso e più vicine alla classe media potrebbero farsi avanti”. Ma quale classe media? Un tempo pilastro dell’economia globale, oggi la classe media sembra dissolversi come la nebbia sulla Laguna. Negli Stati Uniti, corteggiata dal ticket democratico Harris-Walz, ha preferito un miliardario con l’hobby delle torri dorate: Donald Trump. Perché? Tra inflazione e rette universitarie da capogiro, anche chi si riteneva benestante sta facendo i conti con la realtà. Ma il problema non è solo occidentale. La middle class cinese, la gallina dalle uova d’oro del lusso, ha rallentato bruscamente. Questo ha innescato un effetto domino, colpendo duramente le vendite di marchi che, come il Fondaco, avevano puntato tutto su un pubblico globale che oggi sembra meno interessato a borse griffate e più preoccupato di pagare il mutuo.




A peggiorare la situazione, ci si è messa anche l’industria stessa. Andrea Guerra, ceo di Prada, ha ammesso che i marchi hanno esagerato con gli aumenti dei prezzi: “Si è sbagliato ad alzarli troppo, troppo in fretta. Non siamo riusciti a far innamorare i consumatori dei nostri prodotti. Questo è il fallimento più grande”. E così luoghi come il Fondaco, pur straordinari, sono diventati versioni lussuose ma impersonali di un duty-free qualsiasi.



La crisi del Fondaco ci ricorda che il lusso non può limitarsi a location scenografiche e prezzi astronomici. Servono autenticità e un legame con i territori che ospitano questi spazi. Venezia, già sopraffatta dal turismo di massa, forse non aveva bisogno di un altro emporio di grandi firme, ma di un luogo capace di celebrare la sua storia e il suo artigianato. Alcune iniziative, come Homo Faber (curata da Luca Guadagnino), hanno mostrato che è possibile unire cultura e commercio in modo innovativo. Il Fondaco, invece, ha scommesso tutto sullo shopping di lusso e ha perso, soprattutto in un’epoca in cui i consumatori cercano esperienze più autentiche. Più middle class, e meno business class.

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