La svolta di Meloni sulla giustizia

Premierato? Calma. Autonomia? Muoversi in sordina. Carriere separate e nuovo Csm? Sbrigarsi. Il governo cambia le priorità e punta sul garantismo. Storia di una svolta identitaria, calendario alla mano (e una legge in arrivo)

C’è una novità importante nella politica italiana, o meglio nella politica del governo, e quella novità coincide con una decisione a sorpresa comunicata la scorsa settimana da Palazzo Chigi al ministero della Giustizia e trasferita poi a sua volta dal ministro Carlo Nordio a tutti i capigruppo dei partiti che sostengono la maggioranza di governo. Una novità che riguarda un’inversione di rotta significativa, relativa alle priorità dell’esecutivo, e che coincide con una scelta fatta dalla presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, che può permettere al governo di trovare, almeno su questo tema, un’unità vera. La novità ha a che fare con la decisione del capo dell’esecutivo di non considerare più una urgenza assoluta, in termini di tempistiche, l’approvazione della legge sul premierato e l’approvazione della legge sull’autonomia e di dare invece “priorità massima” all’approvazione del ddl sulla giustizia, già approvato in Consiglio dei ministri, contenente la separazione delle carriere e la riforma del Csm.

La ragione è duplice, oltre che saggia. Da un lato vi è la volontà, da parte del governo, di poter trovare una bandiera identitaria da sventolare in grado non di dividere ma di unire la maggioranza e di spaccare anche le opposizioni. Dall’altro lato vi è la volontà, da parte della premier, di creare le condizioni affinché prima del ritorno alle urne nel 2027 vi sia un solo referendum costituzionale da celebrare in Italia: non quello sul premierato, troppo scivoloso, troppo divisivo, ma quello sulla giustizia.

I calcoli sono semplici e il calendario può aiutare a inquadrare il tema, insieme politico e identitario. Il ddl sulla giustizia è calendarizzato alla Camera il 9 dicembre. L’indicazione del governo è approvare al Senato il testo senza modifiche entro marzo e approvare poi in seconda lettura tutto il ddl entro settembre, o comunque entro la fine del 2025, per poi prepararsi a celebrare il referendum, che il governo vuole, nei primi mesi del 2026.

Al contrario, invece, il premierato è fermo, bloccato al Senato. A Palazzo Madama, il testo è stato approvato in prima lettura il 18 giugno 2024. Cinque mesi dopo, nessun movimento, nessun passo in avanti e anzi un passo indietro messo in agenda: il testo potrebbe andare alla Camera nei primi mesi del 2025, ma nel farlo è già previsto che a Montecitorio vengano cambiati alcuni punti del ddl (il secondo incarico a un secondo premier, per esempio, e il riferimento da eliminare al premio di maggioranza, perché la legge elettorale è una legge ordinaria e non può essere contemplata all’interno di una legge costituzionale), e dunque si ripartirebbe da zero e l’indicazione del governo è di non accelerare su questo fronte nella maniera più assoluta, non per affossare la riforma ma per far sì che un eventuale referendum possa essere celebrato non in questa legislatura ma nella prossima.

Stessa storia sull’autonomia, in buona parte svuotata dalla Corte Costituzionale, che la maggioranza deve cominciare a riscrivere per correggere le parti annullate dalla Consulta e tentare così di evitare un altro referendum anche se non costituzionale.

L’investimento politico sulla giustizia segna una discontinuità netta rispetto alla fine del 2023, quando Meloni chiese invece di dare priorità assoluta al premierato, preoccupata dal fatto che le liti con i magistrati potessero creare tensioni eccessive attorno al governo, e la volontà di trasformare le riforme sulla giustizia nel vero tratto identitario del governo Meloni è testimoniata anche dal fatto che in queste ore la maggioranza sta lavorando a una nuova legge sulle carceri per arrivare all’obiettivo di distinguere le strutture penitenziarie nelle quali far scontare le misure cautelari, separando i destini di coloro che hanno una pena definitiva da coloro che invece devono considerarsi presunti innocenti.

Il calcolo di Meloni è interessante: un governo litigioso che finora ha fatto della prudenza il suo tratto distintivo deve necessariamente trovare un tema su cui costruire un’identità, un nuovo collante, e su cui costruire anche una narrazione in grado di creare consenso, provando a spaccare anche l’elettorato avversario, e quel tema potrebbe essere il tentativo di far emergere una polarizzazione tra una parte politica che, con mille contraddizioni, combatte per il garantismo, per la separazione dei poteri, per la limitazione delle esondazioni delle procure, e una parte politica che invece sui temi della giustizia potrebbe avere difficoltà a emanciparsi dal verbo grillino e dall’agenda fondata sulla gogna. La novità c’è ed è gustosa e immaginare di avere una destra meno impegnata a dividersi sulle fregnacce, detto con rispetto, e più desiderosa di intervenire sui tabù del paese potrebbe essere una notizia positiva, in grado di riequilibrare il profilo raccapricciante mostrato dal governo finora sulla giustizia, la cui deriva securitaria, fatta di populismo penale e nuove pene su ogni reato di grande interesse mediatico, ha messo in secondo piano ogni timido sforzo garantista del governo Meloni.

  • Claudio Cerasa
    Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e “Ho visto l’uomo nero”, con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.

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