Arianna Safonov, la comica che strapazza i luoghi comuni sul patriarcato

“Picchiamoci”, monologo di un’anti-Cortellesi (senza nulla togliere): storie archetipiche dell’oggi e provare a strapazzare, ribaltare e scuotere i luoghi comuni sulla violenza di genere, sul patriarcato, sulla famiglia, sull’ubriacatura woke e sull’organizzazione ipocrita di alcune abitudini progressiste di società

Una ragazza oggi quarantenne, romana per nascita ma dal nome evocativo di una duplice, ulteriore origine: Arianna Porcelli Safonov, professione autrice satirica, è infatti anche un po’ milanese per ascendenza materna e un po’ russa per ascendenza paterna, con antenati giunti a Genova da Odessa nel lontano e significativo 1917. Una ragazza quarantenne che – dopo una laurea in Storia del Costume e dieci anni indaffarati nel mondo dell’organizzazione eventi, tra l’Italia, New York e Madrid – nel 2008 decide di mettersi a studiare teatro comico e poi, nel 2014, di dedicarsi a tempo pieno alla scrittura, andando letteralmente a vivere in campagna, in un borgo sull’Appennino. Doveva essere una prova di un anno sabbatico, ma gli anni sono diventati sette e il blog aperto da Arianna nelle sere di stanchezza degli anni americani (dal nome non casuale di “Madame Pipì”) ha generato racconti satirici con bersagli diversi (il cibo, da cui il monologo “Alimentire”, le madri, gli uomini, le donne, le idiosincrasie politiche e sociali). Ma scrivere non basta. “Mi piace raccontarli, i libri”, dice Arianna. E il monologo andato in scena a Roma, alla Sala Umberto, il 25 novembre, nella Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro la donna, dal titolo provocatorio di “Picchiamoci”, è stato scritto da Safonov per raccontare storie archetipiche dell’oggi e provare a strapazzare, ribaltare e scuotere i luoghi comuni sulla violenza di genere, sul patriarcato, sulla famiglia, sull’ubriacatura woke e sull’organizzazione ipocrita di alcune abitudini progressiste di società, con il fine di rimettere in moto il pensiero e scardinare alcuni tic mentali e verbali che, sotto la coperta rassicurante di linguaggio “politicamente corretto”, rischiano di renderci simili ad automi che, per pigrizia, spesso commettono, più o meno inavvertitamente, una violenza uguale e contraria a quella che vorrebbero combattere. E in “Picchiamoci”, atto unico dissacrante molto applaudito in sala (“ma qualcuno si è alzato e se n’è andato”, sorride l’autrice), Arianna prende di mira, dando voce a più personaggi, i riflessi condizionati che si nascondono dietro le buone idee mal tradotte in fatti: si tratta di violenza di genere o di violenza del genere umano? Ecco che sfila, oltre il Lungotevere, “serpente grigio” di macchine, semafori e gente che urla “mortacci tua”, un esercito di sagome ribaltate del reale, maschi perseguitati da un fantomatico comitato “femmino” che non si sa perché ancora abbiano il coraggio di nascere tali, ma anche “sorelle” di manifestazione che si trasformano in belluine presenze l’una contro l’altra armate (lì non ci sono uomini, eppure c’è violenza, non sarà che il problema è della singola persona? dice l’autrice). Ma la stessa autrice non giustifica nessuno e non consola nessuno, anzi dà una sorta di sveglia al modello di impegno rosa ecumenico in stile Paola Cortellesi (senza nulla togliere a Cortellesi): qui sono tutti accusati, uomini e donne, e tutti salvati, a patto che metaforicamente tornino a “picchiarsi” con le parole, a incontrarsi sul campo di battaglia senza la rete di un ruolo comodo e scomodo allo stesso tempo, come quello della moglie di Roberto o di Roberto l’uomo-geranio, personaggi tragicamente esilaranti nel monologo, lei ridotta a stalattite e lui a pianta che muore un po’ ogni giorno, imprigionati nei diktat della lavagnetta con l’elenco delle cose da fare. Chi ha ragione? Chi ha torto? Non importa, l’urgenza è uscire dalla follia collettiva che rende molti matrimoni un contratto da stracciare subito dopo una festa che costa più di una mannaia esattoriale, con viaggio di nozze alle Fiji e karaoke esotici che potevano essere fatti a Roseto degli Abruzzi. C’è chi si sposa perché si sposano le amiche o perché, se uomo, “i miei genitori vogliono diventare nonni”. Ci sono molte delle vite che ci scorrono accanto, avviluppate in un nulla che impone lessico e atti. Come il personaggio di Elena che, alle cene dei vecchi amici di sinistra, tutti in coppia, tutti cinquantenni, si è stufata di notare che le donne, se plurilaureate non importa, vengano sempre zittite da un buzzurro come noiose pubblicità nel film. Di chi è la colpa? E che cosa rimane? Tra tante domande insolute, resta la possibilità di non sottrarsi, e magari scontrarsi, per essere finalmente visti. Humour nero? “In realtà è il mio primo spettacolo edificante”, scherza senza troppo scherzare Safonov: “Mi piace l’idea che il pubblico esca con qualcosa, magari con la gioia di sentirsi tutti diversi, e fuori dal pensiero unico”.

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l’Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l’hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E’ nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.

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