Una forza erculea industriale rifluisce in una storia familiare penosa che rischia di coinvolgere un gran pezzo d’Italia in una catastrofe senza rimedio. Questo paese avrebbe il dovere di discutere e riesaminare il maggior lascito della sua storia finanziaria e industriale, di costume e di gusto
Il crollo di un mito è una cosa seria. Giovanni Agnelli, l’Avvocato, era appunto un mito italiano nel mondo. Marella Caracciolo, sua moglie, un altro mito, un Cigno in bianco e nero, il più bel collo della terra alle prese con giardini d’incanto degni del Tasso e di Armida. Non è solo questione di orologi sopra il polsino, basettoni da armatore greco (copyright Alberto Ronchey), gite pericolose in Costa Azzurra, incidenti stradali da epoca del Boom, l’Accademia di Pinerolo, la guerra, l’America, il flirt con Pamela Digby Churchill Harriman, la fama di battutista cinico e snob, la faccia bella da indio, le ascendenze americane, Malaparte, i nomignoli rinascimentali ai calciatori (Pinturicchio), la immensa favolosa ricchezza e il gusto del mercante d’arte, la vela e l’elicottero (“un mezzo di trasporto fantastico, molto impiccione”), l’editoria giornalistica nell’epoca d’oro, i direttori, la sveglia alle cinque e mezzo del mattino, il moralismo bonario, la cocaina bene assunta, la vendita e il riacquisto delle biografie sgradite, le strette di mano confindustriali con la Cgil sulla scala mobile, l’educazione vallettiana, la dinastia, la vetturetta, gli operai, la Fiat nello stato italiano con lo spionaggio e tutto, Altafini e la Juve bonipertiana, per non parlare del potere vero da Kissinger a Felix Rohatyn, segretari di stato e banchieri-ambasciatori, immagini viventi della leadership e del denaro, amici e sodali di Park Avenue e di Torino collinare e di Villar Perosa, e ancora un lungo elenco troppo lungo da recitare qui.
I miti restano tali, consegnati al carattere brillante del passato, ai balli, ai revers Caraceni, alla guida veloce, alle mattane e ai capricci regali della grande famiglia italiana. Ma nel presente, questa forza erculea industriale, portata quasi al fallimento ma riscattata da amministratori delegati senza scrupoli, rifluisce in una storia familiare penosa, disperante, e in una vicenda in cui si inseguono studi notarili e legali insigni travolti da magistrati e finanzieri con tutti gli archivi e le documentazioni successorie in un turbine da cui non si sa come usciranno, se con le ossa rotte o no, gli eredi designati e il loro status di onorabilità innanzitutto fiscale, poi finanziaria, tutto sotto la sferza del rancore, della divisione, dell’aggressività e del rivendicativo materno. Stellantis, l’Economist, Exor, il gruppo editoriale Gedi con il sospetto grottesco solo a pensarci di un grande conflitto di interessi nell’Italia del grande ed elegante Silvio Berlusconi ed eredi, l’eredità di Marella, la cittadinanza mezza svizzera, i documenti contraffatti in ipotesi: il presente del mito Agnelli, con quei bravissimi ragazzi Elkann coinvolti in una vicenda evidentemente più vecchia e più grande di loro, con una popolana romana a Palazzo Chigi che evita di riceverli, tutto parla di una decomposizione che magari finirà in una nullità o in un accordo legale a cancellazione delle perdite, è da augurarselo per la custodia della storia nazionale o forse no, ma certo coinvolge un gran pezzo d’Italia in una catastrofe senza rimedio.
Colpisce il silenzio di tanti che dovrebbero parlare, e la consegna a un chiacchiericcio senza senso dei dettagli di una rovina strisciante, che non si sa ancora a che cosa metterà mai capo. Le colpe dei nonni non ricadono sui nipoti, e il colpevolismo preventivo è roba da accattoni morali. D’accordo. Ma questo paese non si può permettere di aspettare che la giustizia faccia il suo corso, come si dice, avrebbe il dovere di discutere e riesaminare sine ira ac studio il maggior lascito della sua storia finanziaria e industriale, di costume e di gusto. Dove sono le nevi d’un tempo?