L’offerta pubblica di scambio lanciata da Unicredit su Banco Bpm per dar vita a un colosso bancario italiano con 19 milioni di clienti ha scatenato un putiferio ai piani alti del governo Meloni. La partite complementari di Orcel e tutti i timori degli analisti
L’offerta pubblica di scambio lanciata da Unicredit su Banco Bpm per dar vita a un colosso bancario italiano con 19 milioni di clienti ha scatenato un putiferio ai piani alti del governo Meloni. Prima il ministro delle Infrastrutture, Matteo Salvini, è intervenuto per dire che la mossa va contro il disegno del terzo polo bancario che tanto piace a Palazzo Chigi. E dopo anche il capo del Mef, Giancarlo Giorgetti, ha commentato freddamente l’iniziativa di Andrea Orcel ricordando la possibilità di esercitare il golden power. Ieri sera negli ambienti finanziari si sentiva diffusamente parlare di “reazione scomposta” da parte dell’esecutivo, che ha lasciato intendere che in qualche modo l’operazione potrebbe essere bloccata. I cortocircuiti in questa storia sono molti.
In pratica, il governo che, almeno a parole, ha tifato Unicredit quando ha tentato di scalare una banca tedesca trovando l’opposizione del governo di Olaf Scholz, sembra pronto ad alzare una barriera quando la stessa banca vuole crescere di dimensione in Italia. A ben guardare, però, la sensazione che l’iniziativa di Orcel abbia toccato un nervo scoperto della maggioranza riguarda soprattutto l’area della Lega perché, per esempio, il presidente della Commissione Finanze della Camera, Marco Osnato di Fratelli d’Italia, ha sottolineato come non sia compito della politica “dirigere il mercato e le realtà private”. Ad ogni modo, vero è che Unicredit è tenuta a comunicare al governo l’operazione ai sensi della normativa europea sul golden power, che dal 2020, in piena pandemia, è stata estesa al settore bancario e assicurativo per proteggerlo da tentativi di scalate da parte di operatori extra Ue. Tale protezione in Italia ha poi assunto un ruolo più incisivo con la possibilità di essere applicata anche a casi in cui il tentativo di acquisizione venga messo in atto da soggetti dell’Unione europea. Unicredit, pur sapendo di dovere fare i conti con questa autorizzazione, non ci ha pensato due volte a far partire l’offensiva su Bpm, al quale il governo guarda come a un punto di riferimento per la sua strategia in campo bancario.
“Bisognerebbe interrogarsi sul difficile equilibrio tra politica industriale, che può essere legittima anche in campo bancario, e interferenza politica – dice al Foglio Mario Comana, economista esperto di mercati finanziari dell’Università Luiss – Non saprei dire quale dei due aspetti debba prevalere in questo caso, ma ritengo che se l’autorizzazione all’ops di Unicredit su Banco Bpm venisse negata dovrebbe avere valide motivazioni a supporto che implicano la sicurezza e l’interesse nazionale”. Insomma, se Palazzo Chigi vorrà mettersi di traverso dovrà essere convincente soprattutto perché, in questa vicenda, non è solo arbitro ma parte in causa come azionista del Monte. Dal canto suo, la banca milanese guidata da Giuseppe Castagna, di cui oggi si riunisce il cda, si trova nella posizione di chi vorrebbe proseguire su un binario di crescita autonoma, magari rafforzandosi nelle gestioni patrimoniali attraverso l’acquisizione della società Anima, ma nei fatti è entrata nel mirino di vari soggetti fino al punto di essere contesa. Il fatto è che Bpm opera in un’area, quella lombarda e del nord-est, molto ricca e, comunque, vicina all’elettorato della Lega per la quale la aggregazione con Mps sarebbe l’opzione da preferire nonostante il costo sociale che ne potrebbe derivare in termini di migliaia di esuberi. D’altro canto, la banca ha una forte presenza di investitori bancari e finanziari esteri nell’azionariato (Credit Agricole, Blackrock, Goldman Sachs), di sicuro più propensi a valutare l’economicità della proposta avanza da Unicredit (alcuni analisti hanno già avanzato l’ipotesi che il premio offerto da Unicredit sia troppo basso) che ad assecondare le ambizioni del governo italiano. Poi ci sono gli aspetti legati ai territori che in questa partita avranno il loro peso.
“Unicredit punta a fare un’operazione simile a quella di Intesa San Paolo con Ubi di qualche anno fa – prosegue Comana – La logica industriale è la stessa e sono anche convinto che questo progetto non escluda quello con Commerzbank. Penso che camminino su binari paralleli. Anche se, a quanto vediamo, in entrambi i casi si può osservare che il dialogo con la politica può non essere facile”. Comana è sempre stato tra gli osservatori più critici del consolidamento bancario ritenendo che una maggiore concorrenza possa favorire l’accesso al credito da parte delle imprese. “Queste operazioni non sono mai neutre e posso dire che nel tessuto produttivo è diffuso il timore di ricevere più danni che benefici da una ulteriore concentrazione”. Detto questo, per Comana è da accogliere con grande favore il fatto che in Italia le fusioni bancarie non si facciano più a mo’ di salvataggio ma per ragioni di mercato e che per questo vengono ben viste dalla vigilanza europea che considera la dimensione come un punto di forza. I governi, però, sembrano molto sensibili, soprattutto quando sono direttamente coinvolte nel capitale delle banche. Il governo italiano e quello tedesco si sono trovati, per motivi analoghi, dentro l’azionariato di Mps e Commerzbank e nel momento in cui ne stavano uscendo quasi del tutto si sono ritrovati di fronte alla audace sfida di un banchiere ambizioso come Andrea Orcel, che del mercato e della creazione di valore ha fatto il suo unico scopo.