Dallo scioglimento degli Odd Future, la sua carriera ha seguito una traiettoria particolare, esplorando territori musicali più vasti. Uno stile incostante e mutevole che culmina in un nuovo album, un viaggio cinematografico nella sua perenne inquietudine
Una quindicina d’anni fa a Los Angeles avvenne una piccola rivoluzione musicale: nel pieno del passaggio della rap music a nuovo mainstream commerciale, oltre che a stereotipato veicolo di rivendicazione razziale, si formò una crew che si poneva in (ironica) contrapposizione con lo stato delle cose. Si chiamava Odd Future, metteva insieme poco più che ragazzini prevalentemente afroamericani, ma senza limiti precostituiti al riguardo, il più delle volte provenienti da una middle class integrata, se non benestante. I suoi veicoli espressivi erano una musicalità ruvida, trasgressiva ma ad alto tasso poetico, contrapposta al machismo del gangsta rap – al punto da contemplare nel repertorio un tema radioattivo per il rap tradizionale, come la manifesta omosessualità – un’estetica gioiosa e colorata e un ribadito gusto a fare gruppo, a collaborare, a intrecciare le ispirazioni. I nomi di punta, tra i tanti membri più o meno permanenti, erano Earl Sweatshirt, Frank Ocean, Domo Genesis, ma il leader indiscusso della posse era un giovane stravagante, con la faccia da adulto e le idee da agent provocateur, che si faceva chiamare Tyler, the Creator. Tanta acqua è passata sotto i ponti, Odd Future si è disgregata e per alcuni (pochi) si è avviata una discreta carriera solista – ovviamente su tutti svetta il nome di Frank Ocean, artista assoluto se ce n’è uno.
Una traiettoria particolare ha seguito invece Tyler, allineandosi a quella produzione musicale che, proprio partendo dal rap, ha preso a esplorare territori musicali più vasti, che includono il pop ma soprattutto la ricerca di una riscrittura contemporanea della radice espressiva black, non troppo lontano da quanto sta facendo, album dopo album, Kendrick Lamar. Rispetto al quale, però, the Creator è rimasto sempre in una dimensione più lieve, incostante e mutevole, ma non per questo meno pregevole, inanellando album che hanno finito per conquistare un buon successo di vendite e il vasto plauso della critica, culminato con l’aggiudicazione di un paio di Grammy per lavori compiutissimi come “Igor” e “Call Me If You Get Lost”, all’alba degli anni Venti. Con la prerogativa di restare sempre un artista impossibile da collocare, liquido nella sua espressione e fecondo per la pregevole produzione di videoclip, uno più sorprendente dell’altro. E ancora, con quella cura per l’esteriorità, già notevole nelle famose, quasi mitiche, t-shirt della Odd Future, evolutasi poi in un marchio di moda, Golf Wang, di cui Tyler è il fondatore (se il vostro portafogli lo consente, consigliato un giro nella sua raffinata boutique newyorkese). E’ divenuto lui stesso, col suo personalissimo aplomb, una figura iconica nella distanza dalla vetusta radice rap, quando si sono superati i trent’anni e si ha finalmente un’idea chiara di cosa sia lo show business.
Tutti argomenti che trovano spazio in “Chromakopia”, nuovo e ottavo album di Tyler, the Creator, salutato come la cosa più interessante uscita nell’ultimo periodo dall’immaginifico laboratorio della black music. Il disco è un viaggio dell’autore nelle pieghe della sua stessa psicologia, tra le proprie contraddizioni e i segreti – a cominciare dall’orientamento sessuale – con i quali ha dovuto fare i conti nel nevrotico calderone della musica americana. Non a caso, la coprotagonista del lavoro, interlocutrice e inattesa voce-guida di “Chromakopia” è Bonita Smith, la mamma di Tyler, alle cui parole è affidato il compito di aprire le danze: “Sei tu la luce” gli dice, “non è sopra di te, è dentro di te”. Parte così la peregrinazione di Tyler tra i generi e i temi, transitando per la Nigeria swahili che è la sua terra d’origine, sfiorando il rock, il colto respiro orchestrale, il jazz, il gospel e infine il riaffiorare della parola ritmica (Tyler resta un rapper coi fiocchi), nella quale trova il conforto di partecipazioni illustri come Childish Gambino e Lil Wayne.
A seguire quanto Tyler racconta nei pezzi, si vive un viaggio quasi cinematografico e sicuramente cinetico, disseminato di ansia: un padre sparito subito, l’omosessualità nascosta, i capelli che una mattina diventano grigi, la sensazione di vivere sotto minaccia, come capita al protagonista di “Get Out”, la pellicola di Jordan Peele, perché la vita è un’esperienza di pericolo. La blackness di Tyler, the Creator, uno che da giovane dichiarava di scrivere “musica nera per ragazzi bianchi”, è una continua ridefinizione in base al tempo che passa, all’età che cambia, al gusto e allo stile che affinano la loro sapienza. Il suo è uno dei suoni più contemporanei che si possano percepire da quella sorgente. E la sua è la stessa, perenne inquietudine che Ta-Nehisi Coates racconta nei propri saggi: nero sarà pure bello, ma è molto difficile. E finché i riflettori del palco sono accesi, fiocca l’ammirazione e non c’è da avere paura. Dopo, al buio, l’antica differenza può ancora farti tremare.