Vittima a chi? Il tabù sulla forza delle ragazze e l’importanza dell’autodifesa

Le donne che non vogliono morire passano all’azione, in tutti i ceti sociali e in ogni cultura. I libri di Tavella e Lippolis sono manuali contro la violenza maschile

Le prime erano state Madonna, trionfante nel tour Blond Ambition del 1989 con il reggiseno creato per lei da Jean Paul Gaultier, con le coppe a cono e le punte metalliche svettanti verso il pubblico, e Uma Thurman, che in Kill Bill di Tarantino esegue implacabile la sua vendetta a colpi di arti marziali e spade giapponesi. Le due donne, ipersessuata la prima e androgina la seconda, hanno aperto l’immaginario globale verso una figura di donna che impugna l’aggressività senza più scusarsene. Protagoniste e non più solo vittime, donne in grado di prendere in mano la propria vita, e di indicare un’altra strada. Madonna ha forgiato l’immaginario liberato delle generazioni a venire, mettendo in soffitta l’immagine della donna emancipata anni Ottanta tipo Donne in carriera – quella per intenderci con le giacche dalle spalle super imbottite, per mimetizzarsi tra gli uomini. Con Kill Bill e l’inizio del nuovo millennio la globalizzazione ha mescolato tutto, culture popoli e sessi, e quella figura della spietata donna con la spada in mano ci riporta all’antico mito delle Amazzoni, al sogno di Bachofen che ci aveva fatto intravedere che un tempo era esistito davvero il matriarcato.

Saliva dal sottosuolo, dal mondo degli inferi, quello che le donne conoscono da millenni – il mondo delle tante dee dalla potente energia erotica e trasformativa – un odore di ribellione, una voglia di impugnare un’arma, anche simbolica per carità, e certo, non di sottomettere l’altro sesso, ma almeno di vincere una battaglia. Eccola lei, negletta, la parola proibita per le donne: l’aggressività è stata da sempre patrimonio genetico storicamente attribuito agli uomini, con i suoi attributi di testosterone, muscoli e sudore, eroismo e potere. Quando esplodeva in una donna diventava trasgressione: era un’inconsulta ribelle, una pazza, un caso patologico. Freud ha rimuginato per anni senza arrivare a una conclusione sul mistero della donna e della sua “follia”. Jung ha rimediato alla mancanza del fondatore della psicoanalisi con la sua fascinosa e molto convincente teoria dell’esistenza nella psiche dell’uomo di una parte femminile, l’Anima, e nella donna di una parte maschile, l’Animus. Chi più chi meno, maschi e femmine abbiamo gli stessi istinti vitali, compreso l’istinto dell’aggressività. Eppure in una donna resta imperdonabile.

Ti vengono in mente le Erinni, la Medusa, Medea, anche le Sirene, con il loro canto d’amore veramente esagerato… La conferma la troviamo nelle parole della psicoanalista di formazione junghiana Marina Valcarenghi, autrice di L’aggressività femminile (Bruno Mondadori). “Prima di tutto definiamo cos’è l’aggressività: è quell’istinto che guida a riconoscere, ad affermare e a proteggere la propria identità. Di per sé non contiene un codice etico, ma poiché da tempo immemorabile mescoliamo l’istinto con la coscienza morale, l’espressione dell’aggressività cambia a seconda del soggetto e delle condizioni storiche e sociali. Questo porta a una grande confusione terminologica, confondendo violenza e autodifesa. Dalla mia esperienza clinica, ho verificato come le donne hanno un deficit aggressivo, anche le più giovani, che porta spesso a reagire in modo scomposto e inefficace alla propria impotenza”. Ma di questo istinto così vitale per la nostra specie non è che le donne siano prive alla nascita, dice Marina Valcarenghi, bensì ne sono state private. Però un istinto non è mai eliminabile, può essere soltanto represso e quindi modificato, respinto nell’inconscio. “La dipendenza dall’aggressività maschile è stata sostenuta nel corso del tempo dalla medicina e anche dalla psicologia del profondo.

E’ stata imposta con la forza delle armi, del rogo, della tortura, della religione, della politica, della legge e della scienza, siamo sempre state considerate il sesso debole, no? In parte lo siamo ancora oggi, perché è un modo di essere di tutte le donne radicato nell’inconscio, in quella parte che viene definita come Ombra”. Ma quali sono le conseguenze nella psiche femminile della perdita dell’aggressività? Masochismo e narcisismo, dice ancora Valcarenghi. E poi: l’identificazione insidiosa della sessualità con l’amore, l’ipertrofia del senso materno, il piacere dell’intrigo, l’ansia e l’iperattività, il bisogno di controllo, tutti comportamenti compensatori. D’altra parte stiamo oggi vedendo come anche le ragazze siano capaci di bullismo e di mobbing.

La confusione tra aggressività, forza e violenza è tanta. Ma una cosa è la forza nell’azione politica – pensiamo alle suffragiste di inizio Novecento e alle loro bombe nei cestini dei rifiuti, è facilmente decifrabile. Tutt’altra cosa è la forza delle donne nel precario equilibrio con il maschile, che come abbiamo visto è stata nei secoli assolutamente penalizzata. Non è facile districarsi in questo groviglio, ma alcune pensatrici femministe ci stanno provando. “Sensibili guerriere” è il titolo di un lavoro collettivo coordinato dalla filosofa Federica Giardini, mentre Per un nuovo genere di forza è il saggio di Alessandra Chiricosta, antropologa ed esperta di arti marziali. Entrambe ci dicono che decostruendo la dicotomia tra uomini forti e donne deboli, tra violenza da una parte e cura dall’altra come dati “naturali”, si decostruisce anche la dicotomia tra vittime e carnefici. Nel pieno del dibattito sulla violenza di genere, dalle molestie ai femminicidi, ci vuole una particolare forza a non essere più vittime e a non esercitare un potere soggiogante. Giulia Siviero, autrice di “Fare femminismo”, viaggio nelle pratiche femministe, ci ripropone la rabbia, quella rabbia così estranea al femminismo occidentale, che ci arriva dai femminismi intersezionali, dai movimenti etnici e sociali. Ma nonostante tutto, la metafora violenta resta un tabù. E’ successo con il bel romanzo distopico “Ragazze elettriche” (titolo originale “Power”) della britannica Naomi Alderman, dove una nuova generazione femminile nasce con un’energia elettrica nelle mani, in grado quindi di fulminare all’istante, come una forma di autodifesa incorporata. La sua innegabile violenza è una provocazione simbolica, ma è stata presa un po’ alla lettera. Insomma, l’aggressività messa in pratica spaventa. I romanzi distopici che ci consolano di più sono ancora quelli dove siamo le solite vittime (come Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood, capolavoro assoluto peraltro). Non ci spaventa invece, anzi ci entusiasma, quando a metterla in campo sono le visionarie curde con il loro esercito, o le magnifiche donne iraniane che in quanto a pratiche di lotta sono le più brave.

All’inconscio dobbiamo quindi ricorrere quando riflettiamo a proposito dei femminicidi che non si fermano mai. Sono tanti gli interrogativi: sul perché si accetta l’ultimo incontro con l’uomo appena lasciato; perché ci dispiace far soffrire una persona a cui siamo state sentimentalmente legate; perché si subisce il ricatto emotivo, e dopo anni di angherie e di lividi non si riesce a denunciarlo; perché sopravvive cocciuta la nostalgia del sogno d’amore, anche se calpestato e vilipeso. Dall’esperienza dei centri antiviolenza arriva la testimonianza che le donne maltrattate si decidono troppo tardi ad agire, sbagliano clamorosamente le ultime mosse. Un inciampo nell’inconscio, direbbe Marina Valcarenghi. E succede alle donne di tutti i ceti sociali, di tutte le culture. A quelle dipendenti economicamente e a quelle con una loro felice autonomia, alle adulte super prudenti e alle ragazze spavalde che fanno kickboxing.

“Se domani tocca a me, brucia tutto”, è lo slogan più forte che è risuonato nelle manifestazioni dal giorno del femminicidio di Giulia Cecchettin – ormai è passato un anno – insieme a quel “facciamo rumore” gridato dalla sorella Elena, che con il suo rivoluzionario discorso ha segnato un punto di svolta. Da allora è diventato lo slogan delle (e dei) più giovani, accompagnato dal tintinnare del mazzo di chiavi. Quest’anno alla vigilia della giornata del 25 novembre contro la violenza maschile sono usciti due libri scritti da due autrici molto diverse, che lanciano però lo stesso messaggio: “E’ ora di passare all’autodifesa, basta con il vittimismo”. Sono Maristella Lippolis, con il romanzo “Donne che non muoiono” (edito da Vallecchi), e Paola Tavella con un manuale dedicato alle più giovani, “Contrattacco! Ribellarsi e difendersi dalla violenza maschile” (Sperling & Kupfer), illustrato da Teresa Cherubini, in copertina il ritratto di una ragazza che sta levando il pugno per colpire (e sul dito indice un anello con il sigillo femminista, simbolo di Lilith, la prima donna della Genesi biblica, la parte ripudiata dell’archetipo femminile, cacciata dal Paradiso terrestre perché rifiuta di sottomettersi ad Adamo). Entrambe le autrici prendono atto che le donne non sanno difendersi, e che è ora di cambiare rotta.

“Ho deciso di scriverlo dopo aver ascoltato i messaggi inviati a Giulia Cecchettin dall’ex fidanzato che l’assediava”, dice Paola Tavella. “Mi sono resa conto come una giovanissima che aveva tutti gli strumenti culturali e sociali non si era accorta del pericolo”. Il suo è un vero manuale, concreto e affettuoso (“mi sono ispirata al linguaggio popolare e accessibile delle riviste femminili, che tanto hanno fatto per cambiare la società e la mentalità delle donne”), e fornisce gli indirizzi di tutti i centri antiviolenza. Il contrattacco è indicato passo per passo: impara a dire no! è il primo. E fallo uscire quel no! dall’ombelico, dal tuo ventre, non dalla gola. Conta sul tuo corpo (e fai degli esercizi che ti diano la postura giusta, decisa e non incerta) e ricorda che la tua anima gemella sei tu. Ama i tuoi soldi. Vestiti pure da supereroina ma stai attenta ai segnali. Prendi tutte le misure contro la violenza in rete, per smascherare il revenge porn e i deepfake, i falsi digitali, e non postare la tua posizione sui social per non farti localizzare. Dì chiaramente al molestatore di fermarsi, magari si spaventa. Guardati intorno e non sottovalutare i parcheggi. Tieniti stretta alle sorelle, liberati dallo stereotipo dell’inimicizia femminile. E ricordati, come diceva Mary Wollstonecraft, che il potere delle donne è nel loro coraggio.

“Basta con le panchine rosse, i palazzi illuminati e le commemorazioni”, fa dire a Dora, una delle sue dodici protagoniste, Maristella Lippolis in Donne che non muoiono. E come non darle ragione, data la retorica e l’ossessiva descrizione dei dettagli dei femminicidi dall’effetto quasi pornografico che domina nella comunicazione mainstream sul tema della violenza, che fa il paio con i programmi trash che mettono oscenamente in scena la guerra dei sessi. Delicata scrittrice che nei suoi romanzi e racconti sa interpretare e orchestrare la relazione tra donne, in un rapporto circolare e sempre in movimento, Maristella Lippolis racconta di un gruppo di lettura sui libri che salvano. Nella libreria di Alice si incrociano le storie di ognuna, e in particolare di due di loro, che con la violenza maschile hanno ancora una partita tutta aperta. “E’ importante l’ascolto reciproco, che qualcuno sia come te e stia con te, la relazione tra donne apre uno sguardo comune e coinvolgente, che non è quello distratto di un carabiniere”, dice Lippolis. Quattro sono le parole chiave che escono dal loro confronto: il senso di colpa che paralizza, la fatica di immaginare un’altra vita, la vergogna per non riuscire a reagire, a difendersi. Infine la salvezza. Dice un’altra protagonista, Melania: “Possediamo tutte l’istinto di autodifesa, care sorelle, quello che ci aiuta a reagire pochi secondi prima che accada l’irreparabile. Ce l’hanno trasmesso le nostre madri selvagge dalle remote lontananze ancestrali e lo abbiamo dimenticato perché abbiamo smesso di pensare che ci potesse essere utile.

Perché ci sarebbe stato sempre qualcuno a difenderci. Sarebbe bastato comportarci bene, da brave ragazze che non rientrano tardi la sera, per scansare i pericoli; da donne consapevoli, di quelle che non provocano, che non abbandonano, che comprendono. Che non capiscono la differenza tra la cattiveria per malvagità e quella che serve a difendersi. Ma forse quell’istinto sonnecchia nascosto dentro di noi e bisogna solo risvegliarlo, corteggiarlo, aiutarlo ad aiutarci. Loro non sono così invulnerabili come vogliono sembrare, nemmeno i loro muscoli e la loro determinazione a farci del male li rende invincibili. Anche loro hanno dei punti deboli e sono molti. Dobbiamo imparare a riconoscerli e a usarli come un’arma. Per difenderci, e non solo, se serve”. Le ragazze che non vogliono morire passano all’azione e il plot del romanzo assume quasi l’andamento di un noir intimista. Ma se la salvezza rischia di diventare vendetta, in che relazione è con la giustizia? Questo è l’ultimo interrogativo che ci aspetta. Tenendo in mente i versi della poetessa, scrittrice e attivista afroamericana Audre Lorde nella Litania per la sopravvivenza: “Per tutte noi questo istante e questo trionfo / non era previsto che noi sopravvivessimo”.

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