La caduta degli dèi tedeschi. TyssenKrupp, Volkswagen, Bmw, Bosch e le altre

Forse gli unici a sorridere sono gli Albrecht, che controllano la catena Aldi. Come le grandi famiglie del Capitale fronteggiano la crisi

Giunto al culmine della sua ricchezza e del suo potere, Friedrich Alfred Krupp, detto il re dei cannoni, decise di imitare Tiberio, passare a Capri i migliori anni della propria vita e sollazzarsi come il dissoluto imperatore negli ozi e nei vizi. Circondato da una corte di ragazzini, accusato di pederastia, venne espulso dall’Italia. Contro di lui si erano scatenati i socialisti sul giornale La Propaganda, ma la campagna era stata rilanciata da Matilde Serao sul Mattino di Napoli. Vorwärts (Avanti), l’organo del partito socialdemocratico tedesco, rincarò le accuse in patria dove era un reato rivelarsi gay: “L’uomo più ricco della Germania indulgeva in pratiche omosessuali con i giovinetti capresi – scrisse il giornale – La corruzione si era fatta così indecente che si potevano vedere persino le fotografie di certi episodi nello studio di un fotografo dell’isola. E l’isola stessa, dopo che il denaro di Krupp aveva aperto la strada, era diventata un centro di omosessualità”. Per sfuggire alla condanna il magnate dell’acciaio ricorse alla sua amicizia con l’imperatore Guglielmo II. Morì poco dopo il 22 novembre 1902 nella sua Essen nel cuore della Ruhr; emorragia cerebrale si disse, ma forse suicidio, travolto dallo scandalo. A Capri resta la via Krupp, uno spettacolare serpente che scende verso il mare. L’industriale non possedeva una villa, abitava al Quisisana e da lì non riusciva ad arrivare direttamente nella rada dove era ancorato il suo yacht, così comprò l’intero tratto di monte e lo fece scavare. Dalla via, riaperta al pubblico per l’ennesima volta nel settembre scorso, si arriva a due antiche caverne, un attrezzato a pied-à-terre dove Friedrich svolgeva i suoi convivi. Una strada a Capri, un colosso industriale alla famiglia. Nel suo testamento aveva lasciato tutto alla figlia Bertha disponendo che il gruppo dell’acciaio diventasse una società per azioni.

Alla fine di un secolo di ferro, di sangue e di fuoco, la Krupp si è fusa con la Thyssen che, insieme a Friedrich Flick, tra i fondatori del Partito nazionalsocialista, aveva creato il famoso trust dell’acciaio. Oggi il gruppo ThyssenKrupp è controllato per il 21 per cento dalla fondazione che fa capo agli eredi della dinastia più che centenaria, intitolata ad Alfried Krupp von Bohlen und Halbach, l’ultimo eroe di quell’infernale Walhalla, morto nel 1967. Ed è finito anch’esso nella bufera che scuote il modello tedesco. Il 28 per cento di quel che produce la ThyssenKrupp è acciaio piatto al carbonio (usato nelle lamiere per le auto), il 18 per cento altre componenti per le vetture, e poi ancora metalli e leghe. Il tutto resta fondamentale anche nei veicoli elettrici. L’automobile che occupa quasi 800 mila lavoratori ha trainato per vent’anni l’intero sistema produttivo: non solo il Mittelstand, quel vasto tessuto di imprese corpo e sangue della seconda potenza manifatturiera mondiale (superato il Giappone, la Cina è in arrivo), ma anche la grande industria risorta con gli stessi uomini e con i capitali americani dopo il decennio della colpa e dell’indulgenza.

Ancor più che in quella italiana, nella storia tedesca i protagonisti privati dell’industrializzazione tardiva, sostenuta economicamente e politicamente dai governi e dalle aristocrazie (piemontese e prussiana), sono rimasti fondamentalmente gli stessi. La confraternita dei cannoni è diventata nel secondo dopoguerra la confraternita dell’automobile. Krupp, Thyssen, Flick, Porsche, Quandt, Bosch, Daimler, oggi stanno soffrendo insieme la crisi del loro centro propulsore. Bosch è il primo produttore mondiale di componenti per auto. Alla famiglia Quandt fa capo la Bmw. Quanto ai Porsche, dopo mezzo secolo di conflitti in famiglia e scontri dinastici, sono tornati al vertice della Volkswagen, terzo produttore mondiale. La Daimler è in mano cinesi. Di quel mondo che ha creato, tra corsi e ricorsi, la potenza economica, le banche sono stati i primi anelli a saltare. La Commerzbank, fallita di fatto con la crisi finanziaria del 2008, è stata salvata, ma non risanata dallo stato. Ora la vuole Unicredit, seconda banca italiana. La possente Deutsche Bank ha cercato di cambiare vita e percorso diventando sempre più una banca d’affari, ma ha ceduto via via il passo al gigantismo americano. E non solo: in Borsa vale la metà di Intesa Sanpaolo, la prima banca italiana.

Come vivono la crisi le grandi famiglie del capitalismo tedesco? Forse gli unici a poter sorridere sono gli Albrecht, quelli che hanno inventato il discount e controllano la catena Aldi. Per loro si diceva che vale il motto “quando per i tedeschi va male, per gli Albrecht va bene”. I fratelli Theo (morto nel 2010) e Karl (deceduto il 16 luglio scorso), figli di un minatore e una bottegaia, si erano divisi il paese il primo al nord il secondo al sud con i supermercati chiamati Aldi, che sta per Albrecht discount. Nella Germania distrutta, impoverita e divisa, hanno introdotto le vendite superscontate grazie a un’organizzazione iper minimalista: i generi alimentari venivano semplicemente impilati sugli scaffali e a volte addirittura lasciati dentro alle scatole lungo i corridoi dei vari supermercati. Ogni singolo metro quadrato doveva essere occupato al meglio. Pochi prodotti (ancora oggi non più di mille) con bassi costi e prezzi al minimo. Nessun marketing (“la nostra pubblicità è il prezzo”) Aldi è la catena numero uno, prima di Lidl fondata nel 1973, sull’onda del successo degli Albrecht, da Josef Schwarz, posseduta ancor oggi con mano ferma dal figlio Dieter che a 85 anni è l’uomo più ricco della Germania. Lo tallona Karl Albrecht junior. La recessione ha colpito anche il commercio e la grande distribuzione: secondo una stima oltre 15 mila ristoranti, pub e bar sono sull’orlo dell’insolvenza. L’inflazione ha favorito i discount, Aldi e Lidl tengono i prezzi bassi e spiazzano i più piccoli che non ci riescono. Ma il calo dei consumi e la riduzione del potere d’acquisto sono le due principali cause interne della recessione.

Torniamo da dove siamo partiti. I magnati dell’acciaio e dell’auto che per tutto il dopoguerra hanno generato e sostenuto la forza economica tedesca si trovano a dover compiere scelte molto drastiche. Gli eredi Krupp hanno da tempo lasciato ai manager l’incombenza di dover produrre la propria ricchezza, ma l’ultima parola spetta sempre a loro e ai fondi di investimento che hanno in mano il resto delle azioni. I dazi di Trump arrivano come l’ultima mazzata e non resterà che ingoiare l’amara medicina: tagli al personale, riconversione produttiva. La ThyssenKrupp fin da aprile ha annunciato una riduzione della produzione, poi si passa ai licenziamenti. La capacità produttiva oggi pari a 11,5 milioni di tonnellate all’anno dovrà scendere di due milioni. Tutto questo mentre è in ballo la transizione ecologica che in concreto significa possibilità di rinunciare al carbone. L’amministratore delegato Miguel Ángel López Borrego è nel mirino dei sindacati, degli azionisti e della politica. Alla fine di agosto l’ex vice cancelliere della Spd Sigmar Gabriel, che guidava il consiglio di sorveglianza della Thyssen (nel sistema duale tedesco il consiglio di sorveglianza è espressione della proprietà e dice la sua sulle strategie, mentre il consiglio di gestione si occupa degli affari correnti), ha gettato esasperato la spugna accusando di “bullismo” López che ha licenziato brutalmente il capo della divisione acciaio.

La ThyssenKrupp ha annunciato una riduzione della produzione, poi si passa ai licenziamenti. Il tutto a transizione ecologica in corso

Se i Thyssen-Krupp non sanno che pesci pigliare, le famiglie Porsche e Piëch, le quali, dopo decenni di lotte intestine, hanno preso in mano il controllo sia della Volkswagen sia della Porsche, la sorella più ricca, hanno deciso di diversificare il portafoglio, cioè cercare nuovi più profittevoli campi in cui investire la loro ricchezza che, schermata da società e fondazioni varie, come accade per lo più in Germania, è difficile da calcolare con esattezza. La crisi si fa sentire. Intendiamoci, nei primi sei mesi dell’anno il veicolo finanziario con il quale le due famiglie investono ha incassato profitti per 2,1 miliardi di euro, ma un anno prima erano stati superiori e la curva punta decisamente in giù. A parte la “macchina del popolo” dove cominciano i tagli agli stipendi, anticamera della riduzione dei posti di lavoro (sindacati e governo si oppongono alla minacciata chiusura di intere fabbriche), l’Audi, gran successo dell’ultimo decennio, chiude l’impianto di Bruxelles e l’utile operativo crolla del 91 per cento. Mentre s’appanna anche il gioiello della corona, la Porsche colpita dalle difficoltà dell’intero comparto del lusso al quale legittimamente appartiene: la più a buon mercato delle vetture costa sui 150 mila euro. Quanto peseranno i dazi di Trump? Intanto è arrivata la delusione elettrica. “Porsche e mobilità elettrica si sposano perfettamente. Non solo perché condividono un approccio ad alta efficienza, ma soprattutto per il loro carattere sportivo. Entro il 2025 il 50 per cento di tutti i nuovi modelli potrebbe avere un motore elettrico”. Queste erano nel febbraio 2019 le parole di Oliver Blume, ai tempi presidente del consiglio di amministrazione di Porsche AG e oggi numero uno dell’intero Gruppo Volkswagen. Leggete che cosa dice adesso il direttore finanziario Lutz Meschke: “Stiamo esaminando la possibilità che veicoli previsti originariamente come completamente elettrici abbiano in futuro una trazione ibrida o un motore a combustione. Ciò che è chiaro è che avremo motori termici ancora per molto tempo”.

L’ottimismo del 2019 alla Volkswagen sul passaggio all’elettrico si è smontato. “Avremo motori termici ancora per molto tempo”

Imparentato con il gerarca nazista Joseph Goebbels, sposato dalla madre in seconde nozze, Herbert Quandt nel dopoguerra è stato capace di trasformare la Bmw da casa automobilistica in difficoltà in uno dei più grandi produttori mondiali di veicoli di lusso. Oggi, i figli Stefan Quandt e Susanne Klatten possiedono quasi la metà dell’azienda, con una ricchezza valutata sui 35 miliardi di dollari. Nel 2019 si calcolava che incassassero 4 milioni di dollari l’ora. Il loro tradizionale silenzio ha avuto due eccezioni: solo nel 2011 hanno espresso la “più profonda vergogna” per i legami paterni con il nazismo (meglio tardi che mai), mentre nel 2008 Susanne è finita sulle prime pagine dei tabloid perché turlupinata e ricattata da un gigolò svizzero che aveva frequentato. Una storia di sesso e videotape. Ai fratelli fa capo circa il 50 per cento della Bmw oltre al colosso delle batterie Varta. Se l’auto arranca, le batterie sono il futuro nel nuovo mondo elettrico. Intanto però la maggior parte della produzione serve proprio per i veicoli a quattro ruote più tradizionali. Un serpente che si morde la coda nelle cui spire è finita anche la Bosch.

Fondata nel 1886 da Robert Bosch come laboratorio di ingegneria, un anno dopo cominciò a occuparsi di magneti per l’accensione ad alta tensione; il primo, montato su un triciclo a motore, ha aperto la strada all’intera industria automobilistica. Controllato strettamente dagli eredi attraverso una fondazione, non quotato in Borsa, il gruppo è il numero uno mondiale nella componentistica con un fatturato di oltre 90 miliardi di euro e produce anche elettrodomestici (primo in Europa). Robert, acceso pacifista, fautore della riconciliazione tra Germania e Francia, credeva nella responsabilità sociale dell’impresa, fu uno dei primi a introdurre la giornata lavorativa di otto ore e rifiutò di trarre profitto dalle produzioni belliche. Il nazismo, al quale si opponeva, alla fine piegò anche Bosch all’economia di guerra. Robert sostenne quel che restava della resistenza interna e salvò molti ebrei, morì nel 1942 senza vedere l’abisso in cui Hitler aveva portato anche la sua impresa che poi divenne protagonista del Wirtschaftswunder, il miracolo tedesco degli anni 50. Dal 2022 le redini sono passate a una nuova generazione di manager, ma non aspettatevi dei giovanotti di belle speranze, la Bosch preferisce gli stagionati, per lo più che si sono fatti le ossa in casa. Nel primo semestre dell’anno ha registrato un calo di utili rispetto a un 2023 in netta crescita. Il gruppo ha investito molto nei veicoli elettrici, nell’idrogeno, nelle tecnologie ambientali seguendo la filosofia di famiglia e la cultura aziendale. Donald Trump con i dazi e la restaurazione energetica metterà alle corde anche l’intramontabile Bosch?

Daimler nelle mani della Deutsche Bank: un disastro dal quale l’ha salvata il fondo americano Cerberus. Poi gli sceicchi, nel 2018 arrivano i cinesi

Nella nostra rassegna a volo d’uccello abbiamo lasciato indietro un altro colosso: Mercedes-Benz, l’ex Daimler. Da tempo non è più in mano ai successori di Gottlieb Daimler e Karl Benz. Finita in mano alla Deutsche Bank, nel 1998 si fonde con la Chrysler. Un disastro dal quale la salva il fondo americano Cerberus che poi apre le porte prima all’emiro del Kuwait poi al fondo di Abu Dhabi. Gli sceicchi non sanno granché di industria, così nel 2018 arrivano i cinesi. La Geely, che un anno prima aveva preso la svedese Volvo, diventa il principale azionista di un gruppo che in Europa possiede anche due gioielli dell’auto britannica: Lotus e Aston Martin. La Daimler è stata anch’essa per un secolo un pilastro del Modell Deutschland: ne ha anticipato la potenza e, a partire dalla fine del secolo, le contraddizioni e le debolezze.

“E’ ora di cambiare il nostro modello”, ha ammesso il cancelliere Olaf Scholz. Ma come? La Germania ha pagato cara l’unificazione sia con una tassa ad hoc, sia con ingenti prestiti bancari che hanno fatto vacillare la Deutsche Bank e crollare la Commerzbank, sia con una paradossale scelta monetaria. Helmut Kohl volle il cambio alla pari tra un marco dell’est che non valeva nulla e un marco dell’ovest che era la valuta più forte d’Europa, una mossa politicamente audace ma economicamente sbagliata, un favore per il quale gli Ossis (come vengono chiamati i tedeschi orientali che si contrappongono ai Wessis) non lo hanno mai ringraziato: tra post comunisti e neo nazisti la Germania est rischia di trascinare in un gorgo estremista l’intero paese. Quando nacque l’euro la Germania era la malata d’Europa, mentre l’Italia si tassava per poter entrare nell’unione monetaria insieme ai primi. E’ un passato che non passa, aggravato dalla crisi finanziaria del 2008-2010 e dalla fine della grande illusione tedesca: nascondere i guai interni con il gas russo a basso prezzo e gli investimenti cinesi ad alto rendimento. Adesso non solo der Kanzler, ma anche das Kapital dovrà ripensare se stesso.

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