L’incredibile storia del Leoncavallo, il centro sociale che nessuno ha mai sgomberato davvero

L’anno prossimo il centro sociale festeggerà i 50 anni. Pochi giorni fa la Corte d’Appello civile ha condannato per mancato sgombero il Viminale a un risarcimento di 3 milioni di euro nei confronti della famiglia Cabassi, proprietaria dell’immobile di via Watteau

Se qualcuno trova appassionante la vicenda di San Siro che va avanti da 5 anni può sbizzarrirsi con quella del Leoncavallo che l’anno prossimo raggiungerà quota 50 anni. L’ultimo sussulto lo ha dato pochi giorni fa la Corte d’Appello civile che ha condannato per mancato sgombero il Viminale a un risarcimento di 3 milioni di euro nei confronti della famiglia Cabassi, proprietaria dell’immobile di via Watteau dove ha sede il centro sociale più famoso d’Italia. Per capire come si è arrivati a questo esito ci vorrebbe un libro, si possono però ripercorrere i momenti salienti di una vicenda in cui politica, intellettuali e naturalmente leoncavallini hanno fatto a gara nel collezionare errori.

Il Leoncavallo nasce nel 1975 in seguito all’occupazione di un immobile dismesso situato nella via omonima. E’ un periodo di grandi tensioni in città, tre anni dopo si verifica l’omicidio di Fausto e Iaio che stavano indagando sullo spaccio di stupefacenti nel quartiere. Nell’89 il sindaco Pillitteri ricorre alla forza promuovendo uno sgombero che provoca una guerriglia degna di Beirut senza centrare neppure l’obiettivo, perché dopo pochi giorni i militanti rioccupano lo stabile. Nel ’94 Formentini riesce dove il suo predecessore aveva fallito ma l’euforia è breve: c’è un primo trasloco del Leonka in via Salomone e poi nella ex cartiera in via Watteau, zona Greco, di proprietà dei Cabassi. Ci riprova Albertini, affidando la patata bollente a Sergio Scalpelli: “L’idea era di avviare un processo di regolarizzazione di una realtà illegale attraverso lo strumento di una fondazione pubblico-privato che incorporasse l’esperienza del Leoncavallo: l’obiettivo era di realizzare uno spazio destinato all’arte e alla creatività, tipo Fabbrica del Vapore”. Ottimi intenti che non vanno in porto anche per il disappunto di una parte della maggioranza di estrazione post-missina: “Pesava il passato – ricorda l’ex assessore allo Sport – e c’era difficoltà a trattare con l’associazione Mamme del Leoncavallo che era il nostro interlocutore. Io comunque godevo del pieno sostegno del sindaco e di La Russa che vedeva l’opportunità di arrivare a una pacificazione tra anime molto diverse della città”. Dopo di lui tocca al nuovo titolare dello sport Aldo Brandirali, forzista ciellino: come Scalpelli proviene da sinistra (Servire il popolo) e insiste sull’opzione fondazione, ma non c’è niente da fare anche perché gli imprenditori illuminati che dovrebbero mettere mano al portafogli non si fanno vedere. Da citare anche il funambolico Vittorio Sgarbi che, da assessore alla Cultura, si reca in via Watteau e paragona i graffiti del Leonka alla Cappella Sistina, fornendo un ulteriore argomento alla Moratti per il suo licenziamento. La sinistra si trova finalmente nel 2011 con la sua grande occasione. Pisapia incarica il suo trait-d’union con i centri sociali e l’assessore all’Urbanistica Lucia De Cesaris che trovano la soluzione: i Cabassi cedono l’ex cartiera di via Watteau al Comune che dà in cambio l’ex scuola di via Zama e la palazzina di via Trivulzio. Ma la delibera del 2014 non arriva in Consiglio entro il 30 aprile dell’anno seguente, data per confermare l’operazione. Sotto accusa è l’allora presidente Basilio Rizzo che avrebbe remato conto: “Ero contrario alla permuta perché ritenevo che si stesse facendo un favore ai Cabassi, quando si alienano beni pubblici bisogna sempre fare una gara”. Nel 2018 Maran modifica l’offerta a Cabassi: volumetrie in cambio di via Watteau ma non se ne fa niente. La prossima puntata di questa storia è il 10 dicembre, gli avvocati delle proprietà e l’ufficiale giudiziario si presenteranno in via Watteau per procedere allo sfratto, vediamo come va a finire.

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