Il “manifesto” di Johan Norberg. I miti da sfatare in un’apologia del capitalismo, più attuale che mai

Dalle molteplici definizione di ricchezza alla preponderanza di uno Stato interventista. In questo nuovo volume, l’autore svedese intende parlare del sistema capitalistico affrontando le asperità del presente e rivolgendosi agli individui in tutta la loro complessità, in particolare ai più giovani

Pubblichiamo un estratto della prefazione di Luca Bellardini al volume di Johan Norberg, “Il manifesto capitalista”, edito da Liberilibri, pp. 348, 19 euro.


Perché un “manifesto capitalista” nel XXI secolo? Ritengo che i lettori italiani necessitino di una spiegazione, prima ancora che sui contenuti, sulle ragioni alla base dell’opera di Johan Norberg.


Dagli attentati dell’11 settembre 2001, e ancor più dalla crisi finanziaria del 2008, la globalizzazione ha certamente rallentato; poi, per diverso tempo, i cosiddetti “populismi” l’hanno sconquassata minandone le fondamenta, cioè il consenso delle persone comuni, afflitte dalla perdita del posto di lavoro, magari della casa, e comunque della sicurezza economica. Nell’ultimo lustro, infine, due eventi drammaticamente distruttivi ci hanno riportato indietro a un oscuro passato: la pandemia di Covid-19, in risposta alla quale molte regole alla base del “villaggio globale” sono risultate sospese, e l’invasione su vasta scala dell’Ucraina da parte della Russia, cesura definitiva tra il mondo libero e quello delle “autocrazie” (un chiaro eufemismo). Secondo alcuni, questi sconvolgimenti rappresentano l’epitome di una “crisi permanente” o “permacrisi”: termine semplicistico, forse, ma indubbiamente efficace.



La domanda di fondo, su cui Norberg incentra la sua disamina, è dunque la seguente: possiamo attribuire questo stato delle cose al fatto che il sistema apparentemente dominante — il capitalismo, appunto — risulta ormai superato? La risposta è evidentemente negativa, ma non dobbiamo banalizzare l’interrogativo. Norberg ha un obiettivo chiaro e circoscritto, ma non per questo semplice da raggiungere: parlare del capitalismo oggi, affrontando le asperità del presente e rivolgendosi agli individui in tutta la loro complessità, certo non riducibile allo schematismo dell’homo œconomicus. Le speranze coltivate al culmine della globalizzazione, quando il comunismo veniva sconfitto, hanno lasciato il passo a un pendolo in continua oscillazione tra l’“incertezza radicale” e la paura più profonda. Dubbi sulle magnifiche sorti e progressive del capitalismo si fanno strada, oggi, tra chi all’epoca già c’era; i più giovani, invece, non hanno di fatto mai conosciuto un occidente sulla cresta dell’onda, saldo nei suoi valori di riferimento, e molti di loro, oggi, il capitalismo lo avversano apertamente. E’ a costoro che parla Norberg: alla loro mente, certo, senza però dimenticarne il cuore.



Sono sempre gli anticapitalisti, infatti, ad applicare quel “materialismo dialettico” in cui molti di loro credono, ignorando le pulsioni individuali e i desideri più profondi degli esseri umani. Prendiamo, per esempio, la questione della diseguaglianza di reddito: oggi l’approccio più diffuso è quello neo-marxista, à la Piketty, che si risolve nella presentazione di qualche rozzo indicatore su come la ricchezza si distribuisce in forma aggregata. In realtà, della ricchezza esistono tante definizioni diverse: il semplice ammontare di un patrimonio è inidoneo a rappresentare le effettive condizioni di vita di una persona, visto che le moderne società capitaliste garantiscono l’accesso diffuso – anche per i meno abbienti – a beni e servizi primari di cui un tempo anche i più benestanti potevano essere privi. Inoltre, la ricerca scientifica più recente ha mostrato che un conto è la diseguaglianza misurata (“oggettiva”), ben altro conto può essere quella percepita (“soggettiva”), con importanti differenze a seconda del grado di sviluppo socio-economico del territorio in cui le persone risiedono. E’ un’evidenza facilmente osservabile, peraltro, che una maggiore libertà economica si correla a una riduzione del divario, anziché a un aumento come vorrebbe certa propaganda. C’è poi la questione dell’ambiente, un’altra che nel dibattito pubblico è spesso affrontata con le lenti dell’ideologia politica.



Non mancano, in quest’opera, parti dedicate a questioni più squisitamente economiche, se non altro per sfatare l’ennesimo mito che molti hanno udito raccontare: l’idea che il pensiero neoliberista sia quello dominante. Nulla di più falso: preponderante nel dibattito pubblico – a partire dall’Italia – è piuttosto la visione di chi si professa neokeynesiano. Quella maggioritaria, ahinoi, preferisce uno Stato ipertrofico e interventista, che si faccia carico di “correggere” il mercato – quando non tenti apertamente di sopraffarlo – stabilendo, arbitrariamente, vincitori e vinti.



Il messaggio centrale del libro, però, arriva alla fine dell’opera. Una volta appurato che il capitalismo è fonte di progresso, ricchezza e benessere, cosa possiamo dire sulla sua capacità di renderci autenticamente felici? Anche qui, il nostro autore conduce un’operazione-verità: a ben guardare, molti degli studi citati per sostenere che nelle società capitaliste si vivrebbe male, addirittura sotto un’implicita cappa d’oppressione, vengono letti in maniera surrettizia o presentano fallacie notevoli. Non è vero che – come va di moda affermare oggi – le multinazionali ci hanno rubato la libertà di scegliere, influenzando pesantemente i nostri bisogni e desideri: il consumismo avrà i suoi lati negativi, forse alcuni detestabili, ma non è “il male”. Né esiste alcuna evidenza che la ricerca del profitto, la competizione, la foga di “arrivare” portino gli individui a voler schiacciare gli altri, ignorare le loro emozioni, avere in spregio i loro sentimenti e desideri più intimi. Scorrendo i dati senza pregiudizi, osserva Norberg, forse è vero il contrario: successo e benevolenza si rafforzano a vicenda, sicché possiamo diventare migliori anche aderendo allo “spirito del capitalismo”. Quest’opera spiega che il capitalismo è fondamentalmente etico, perché consente di vivere secondo la versione migliore di se stessi. L’agire economico può riflettersi nei comportamenti non-economici. Ed è abbastanza per essere orgogliosi di questo sistema, difendendolo da chi vorrebbe affossarlo.

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