Il ceto medio molla il mobile, l’antiquariato è sempre più il trionfo della “nicchia”

“L’arredamento antico, negli ultimi venti anni, ha subito una flessione notevole, salvo eccezioni… Il collezionismo, al contrario, fa richieste sempre più complicate da esaudire”. Questo il quadro che dipinge Michele Subert, presidente dell’Associazione antiquari milanesi e antiquario egli stesso, prosecutore di una tradizione familiare nata nel 1860. Il settore sembra subire una divaricazione, in cui a trionfare è la ricerca dell’oggetto appartenente a nicchie sempre più preziose e peculiari, mentre a svalutarsi è il classico mobile antico di medio livello.

A Subert fa eco Andrea Ciaroni, erede di un’attività, quella di Altomani & Sons, che va avanti da tre generazioni. “Le case moderne – ci spiega – sono un po’ più piccole, quindi hanno meno spazio per i mobili”. E registra una tendenza verso l’essenzialità, specialmente fra i giovani: poco arredamento, ma buono. Magari ci si concentra di più sul dipinto, sulla scultura. Oppure, se proprio si vuol comprare un mobile, lo si cerca di design o molto ricercato. “Il classico mobile di gusto italiano, medio, bello, sincero, onesto, purtroppo non è quasi più richiesto”, osserva Ciaroni.

Che nell’arredamento oggi si punti di più alla qualità che alla quantità, lo pensa anche Mirco Cattai, gallerista e collezionista di antichi tappeti orientali: “Si può vendere, ad esempio, una bellissima console barocca, anche in un ambiente molto moderno, o un grande tappeto”. Si cerca, aggiunge, l’internazionalità. “Sculture, bronzi, marmi di grande qualità e dipinti sempre più certificati”, questi gli oggetti di tendenza, secondo Francesco Bulgarini, direttore di Ars Antiqua. “La classe media – continua – è un po’ scomparsa e quindi il collezionismo è più mirato all’opera di alta qualità”.

Di alta qualità e sempre più di nicchia, come dicevamo. “Per noi il problema principale è reperire le opere, non è più venderle”, afferma addirittura Subert. Stila un piccolo catalogo: “Le maioliche rinascimentali di inizio ‘500, i micromosaici d’autore, gli smalti veneziani…”

E Cattai: “I coralli di trapani, i mobili veneziani, laccati, che sono molto internazionali, i dipinti che rappresentano Venezia, il grand tour, i paesaggi romani, i quadri caravaggeschi”. Quando chiediamo ai quattro antiquari quanta della loro clientela sia straniera, le risposte sono diverse. Si va da “il 10 per cento” di Subert al “20 per cento all’incirca” di Cattai, dal “35-40” di Bulgarini fino a “l’80” di Ciaroni.

Quello dell’antiquariato è, comunque, un mercato internazionale. Frenato, in Italia, da una legislazione abbastanza restrittiva e dalla burocrazia. “Per la vendita agli stranieri – ricorda Cattai – c’è il grande problema di richiedere il permesso di esportazione, e questo prevede un iter che dura circa due mesi”. Se tutto “va bene”. Perché c’è anche il “rischio” che l’oggetto venga riconosciuto di interesse culturale dalla soprintendenza non potendo più muoversi dall’italia.

E che quindi la sua quotazione crolli. “Questa procedura ha un po’ paralizzato il mercato”, ammette Bulgarini. Il direttore di Ars Antiqua riconosce la necessità di tutelare il patrimonio artistico italiano; semmai, “sono le tempistiche che non sono ancora così snelle”. Ministero della Cultura e soprintendenze, dice Subert, “sono completamente sommersi di burocrazia e documentazioni varie da stilare tutti i giorni”. D’altronde, l’Italia è il paese con il maggior numero di opere d’arte al mondo. E quindi, come sostiene Ciaroni, bisogna capire che il carico di lavoro dei funzionari italiani è cento o mille volte superiore ad altri paesi. “Tutti si lamentano – chiosa -, me compreso, però ci lamentiamo con coscienza”. Intendiamo noi: senza esagerare.

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