Difendersi dai dazi. Crescono gli investimenti diretti esteri in Italia. Un’opportunità da cogliere

Gli investimenti netti dall’estero in Italia l’anno scorso sono stati superiori sia alla Germania sia alla Francia. Ma le performance italiane non devono farci sottovalutare i rischi derivanti dalle difficoltà dei nostri cugini europei

Il dato sull’Italia che non ti aspetti è quello sugli investimenti netti dall’estero. Il brief mensile dell’hub della Luiss sulla nuova politica industriale, elaborando dati della Banca mondiale ci fa sapere che gli investimenti netti dall’estero (Ide) in Italia l’anno scorso sono stati superiori sia alla Germania sia alla Francia. Per trovare un altro caso del genere bisogna risalire al 2014, in un contesto tuttavia in cui per tutti e tre i paesi il dato era inferiore all’1 per cento del pil. L’anno scorso invece, pur in diminuzione rispetto al 2022, gli Ide netti italiani sono stati l’1,5 per cento del pil, con la Germania allo 0,4 e la Francia allo 0,3.

Questo dato va interpretato con attenzione. Per l’Italia, rappresenta un livello coerente con la media storica da inizio secolo, escludendo gli anni di crisi. Per Francia e Germania, invece, segna un vero collasso rispetto alla loro media storica superiore al 2 per cento del pil. La performance italiana, quindi, appare positiva più in termini relativi che assoluti, e soprattutto in un quadro continentale molto preoccupante. Per noi, il dato sugli investimenti esteri mostra la vitalità che era già emersa da altri indicatori, come l’occupazione ai massimi storici e le esportazioni, in crescita rispetto a paesi tipicamente più dinamici. Non sorprende dunque che gli investimenti esteri abbiano tenuto, anche considerando la spinta per la crescita dell’espansione fiscale post-Covid, e dal Pnrr che si sta facendo sentire.

Tuttavia, questa resilienza non deve farci sottovalutare i rischi derivanti dalle difficoltà dei nostri cugini europei, soprattutto tedeschi, a cui la nostra manifattura è legata a doppio filo. Del resto, abbiamo imparato dai tempi della crisi del debito che in Europa stiamo meglio quando cresciamo e investiamo assieme, mentre i guai dei nostri vicini si riverberano dentro casa nostra, in particolare se il vicino è la Germania. Per questa ragione, paradossalmente, proprio perché i nostri dati appaiono relativamente positivi bisognerebbe approfittarne per spingere ora una nuova e decisa strategia di specializzazione industriale, innovazione e contemporaneo rafforzamento delle opportunità che possono derivare dall’Europa.

Da più parti si è già sottolineato, anche su questo giornale, come sia necessario che l’Europa “si svegli”, si “dia una mossa” e altre metafore per adolescenti indolenti. I più seri hanno sottolineato le conseguenze che i dazi “ideologici” americani avranno: inflazione per gli Usa e contrazione del nostro export. Tutto vero. Tuttavia, c’è un elemento anche più profondo, che chiama in causa gli stati membri dell’Ue, noi stessi, più che una generica “Europa”. Le strategie di crescita della Germania e dei piccoli paesi europei del nord da circa vent’anni sono concentrate sull’export, piuttosto che sulla domanda interna. Anche l’effettiva (pochissima) crescita italiana degli ultimi vent’anni è dipesa dalla sua bilancia commerciale – a eccezione dei recenti effetti delle misure post-Covid.

Tuttavia, un’America più chiusa inevitabilmente causerà reazioni simili in giro per il mondo e dunque una generalizzata minore apertura economica. Anche se la globalizzazione non dovesse arretrare ma solo rallentare, ciò rafforzerà la crisi già evidente del modello di crescita citato caratterizzato dal binomio investimenti esteri / domanda estera che ha caratterizzato gli scorsi vent’anni. Eppure per fortuna il nostro continente un’alternativa ce l’ha.

I driver della crescita non sono cambiati: innovazione, ricerca, competenze, mercati. E molto è responsabilità degli stati. Ma quel che cambia è l’orizzonte che dovrà necessariamente diventare ancora più europeo. A ben guardare, in questo tempo incerto, il dato di speranza è che abbiamo ancora molta strada da fare per cogliere in pieno i vantaggi economici che derivano dalla nostra Unione europea – dal mercato unico, al mercato dei capitali, alle potenzialità per ricerca, cultura, scienza.

In questa prospettiva, il dato sugli investimenti esteri richiamato all’inizio assume il suo pieno significato strategico. Prendere atto della necessità di un nuovo modello di crescita significa tornare a investire sui propri territori e sul progetto continentale. Significa adottare un “sovranismo europeo” aperto e pragmatico, culturalmente agli antipodi dello spettacolo protezionista che ci aspetta nei prossimi mesi.

Marco Simoni. Hub for New Industrial Policy. LEAP, Università Luiss di Roma

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