Dai quesiti del tribunale di Roma alla corte europea sui paesi sicuri, fino all’emendamento che sposta le convalide sui flussi migratori alle Corti d’Appello: un nuovo scontro tra giudici e governo ridisegna i confini tra diritto e politica
À la guerre comme à la guerre, senza le solite ipocrisie che di regola ammorbano i conflitti istituzionali, sopra tutto se riguardano governo e magistratura. Nel libro di bordo sono due gli ultimi fatti rilevanti: la nuova “chiamata in campo” della Corte europea di giustizia da parte del Tribunale di Roma e l’emendamento Kelany al decreto flussi che sposta la competenza per la convalida del trattenimento dai tribunali alle corti d’appello territoriali.
Primo fatto. Alcuni giudici avevano discutibilmente disapplicato il decreto legge sui paesi sicuri, ritenendo di averne il potere e senza preoccuparsi delle conseguenze in termini di incertezza del quadro normativo. Giorni fa il Tribunale capitolino, nell’intento di chiudere il conflitto, s’è invece rivolto alla Corte europea di giustizia. La decisione del giudice unionale dovrebbe delineare gli ambiti di competenza del potere politico e di quello giurisdizionale. Le domande poste alla Corte sono quattro, tutte finalizzate ad ampliare il controllo del giudice sulle scelte politiche degli organi (governo e parlamento) del circuito democratico e rappresentativo.
Già il primo quesito è significativo: la designazione di paese sicuro può avvenire con legge? Il giudice romano lo esclude, poiché i criteri della scelta resterebbero “coperti”, cioè senza motivazione: necessaria invece se il governo decidesse mediante un atto amministrativo. Chiaro: se non vi è motivazione, un giudice non può spingersi sino in fondo nel sindacare l’attendibilità della scelta stessa.
Secondo quesito, eguale finalità. Il togato romano chiede alla Corte di valutare la possibilità (da lui ovviamente scartata) che il “legislatore nazionale, nel designare un paese terzo come paese di origine sicuro, non espliciti il metodo di valutazione e i criteri di giudizio adoperati in concreto, nonché le fonti dalle quali ha tratto le pertinenti informazioni su quel determinato paese”. Strategia evidente: se la legge dovesse indicare tutti questi dati, il giudice potrebbe sindacarne la congruità e l’adeguatezza.
Col terzo quesito si entra nel cuore del conflitto: “Se il giudice possa servirsi di proprie fonti informative qualificate al fine di ricercare e acquisire elementi di conoscenza che possano essere confrontati con quelli su cui si fonda la qualificazione di uno stato terzo come paese di origine sicuro (qualora tali elementi di conoscenza siano stati esplicitati nel provvedimento o in un suo allegato o comunque in un documento che lo accompagni) ovvero (nel caso in cui gli elementi e le fonti utilizzati dall’autorità che ha qualificato come “sicuro” un determinato paese siano rimasti ignoti) che possano essere adoperati per svolgere un’autonoma valutazione della qualificazione dello stato terzo come paese di origine sicuro”. In breve: un giudice può fare accertamenti istruttori per proprio conto, e arrivare a conclusioni opposte a quelle del decisore politico?
L’ultimo, infine. Un paese è sicuro anche se alcune categorie di persone – per esempio, dissidenti, attivisti per i diritti umani, omosessuali – sono minacciate? Lo schema si ripete. Sarebbe il giudice interno a poter verificare questa situazione a discapito della diversa valutazione fatta dal decisore politico.
Veniamo adesso al secondo fatto di rilievo. Con l’emendamento al decreto flussi il governo intende attribuire la competenza alle corti d’appello, togliendola alle sezioni specializzate dei tribunali. Lasciamo perdere la retorica vacua: non vedo una ricerca di giudici compiacenti. Non ce ne sono, né devono assolutamente esserci. A pensar male (giammai lo farò), vista la provenienza delle critiche si potrebbe al contrario ritenere che con l’emendamento il governo voglia affrancarsi dal giudice avverso.
A me pare che dietro l’emendamento ci possa essere un pensiero diverso. Legittimo (e criticabile) così come i provvedimenti dei tribunali. Mosso da due considerazioni. Anzitutto, la recente sentenza della Corte europea, dietro la quale si sono via via “nascosti” i vari tribunali italiani, non è affatto chiara: non a caso il tribunale romano l’ha investita con quei quattro quesiti, per consentirle – direbbe Gaber – di spiegarsi un po’ meglio.
Seconda considerazione. Poiché è equivoca, quella sentenza – nell’attesa che si pronunci la Corte europea – va comunque interpretata. E un giudice d’appello potrebbe avere un approccio più riflessivo e cauto rispetto a un togato di primo grado. Meno condizionato dall’obbiettivo, per alto e nobile che sia (o lo si ritenga).
Restiamo positivi. Meglio attendere una risposta definitiva da parte della Corte che assistere alle fughe in avanti di un singolo giudice: il quale disapplica le leggi italiane trovando certezze in un diritto dell’Unione sino a oggi abbastanza poco chiaro.