Il Consiglio superiore della magistratura ha approvato una risoluzione a tutela dei giudici bolognesi che hanno inviato alla Corte di giustizia Ue il decreto sui Paesi sicuri, sostenendo che le reazioni dei politici (tra cui la premier Meloni) e dei giornali hanno “travalicato i limiti di cronaca e di critica”, come in una sentenza
“Nel caso in esame, sono stati travalicati i limiti di cronaca e di critica dei provvedimenti giudiziari, così determinando un possibile indebito condizionamento dell’esercizio della funzione giudiziaria oltre che dei singoli magistrati, in violazione delle imprescindibili condizioni di autonomia, indipendenza e imparzialità”. Questa frase, che potrebbe sembrare parte di una sentenza per diffamazione di un tribunale, è in realtà contenuta nella risoluzione approvata ieri dal plenum del Consiglio superiore della magistratura (25 voti a favore, cinque no dei laici di centrodestra) a tutela dei giudici del tribunale di Bologna, che nelle scorse settimane hanno disposto il rinvio alla Corte di giustizia dell’Unione europea del decreto “Paesi sicuri” in materia di immigrazione. La decisione dei giudici era stata oggetto di critiche da parte di esponenti politici, anche in virtù di un (inopportuno? Provocatorio?) paragone contenuto nel provvedimento con la Germania nazista, ritenuta certamente “paese sicuro” dalla “stragrande maggioranza della popolazione tedesca, a eccezione di ebrei, omosessuali, oppositori politici e rom”.
La premier Meloni aveva criticato la decisione definendola “più un volantino propagandistico che un atto di tribunale”, mentre il vicepremier Salvini aveva parlato di “minoranza di giudici che fa il male dell’Italia” e di qualche magistrato che “fa politica con la bandiera rossa in camera”. Alcuni giornali, invece, avevano tracciato il profilo di Marco Gattuso, presidente del collegio giudicante di Bologna: vicino a Magistratura democratica, sensibile alle tematiche dei diritti Lgbt e dei migranti, e favorevole all’utero in affitto, a cui aveva dichiarato pubblicamente anni prima di aver fatto ricorso insieme al compagno.
Tutto ciò non è piaciuto al Csm, in particolare la sua componente togata, che ha chiesto l’apertura di una “pratica a tutela” e con la risoluzione approvata ieri ha voluto censurare in un colpo solo sia le critiche dei politici sia l’attività dei giornali, ritenendole un attacco all’indipendenza della magistratura: “Tale provvedimento (quello di Bologna, ndr) è stato oggetto di dure dichiarazioni da parte di titolari di alte cariche istituzionali, non correlate al merito delle argomentazioni giuridiche sviluppate nell’ordinanza. Dette dichiarazioni, inoltre, sono state accompagnate dall’esposizione mediatica, da parte di alcune testate giornalistiche nazionali, di fatti e atti della sfera intima e della vita privata e familiare del presidente del collegio giudicante, non limitati ai suoi interventi pubblici e non attinenti alla questione sottesa all’ordinanza”. Queste dichiarazioni per il Csm “appaiono lesive del prestigio e dell’indipendente esercizio della giurisdizione e tali da turbare il regolare svolgimento e la credibilità della funzione giudiziaria nel suo complesso”. Il Csm ha inoltre “ritenuto di dover affermare che, nel caso in esame, sono stati travalicati i limiti di cronaca e di critica dei provvedimenti giudiziari”, neanche si trattasse appunto di una sentenza giudiziaria.
Questo paradosso è stato evidenziato in plenum dai laici di centrodestra. In particolare, la consigliera Claudia Eccher ha ricordato che il giudice Gattuso “ha tutte le possibilità di difendersi in tribunale” da eventuali diffamazioni, “ma il Csm non è un tribunale”. Anche per il consigliere Enrico Aimi il ricorso alla pratica a tutela era infondato alla luce delle norme che disciplinano l’istituto: “Possiamo davvero ritenere che alcune affermazioni della politica possano aver determinato, per il magistrato, una situazione tale da non poter esercitare il regolare svolgimento della funzione giudiziaria? Mi pare francamente eccessivo”.
La stragrande maggioranza del Csm, invece, ha ritenuto di dover approvare la pratica a tutela dei giudici bolognesi spingendo l’organo di governo autonomo dei magistrati ad apparire come un tribunale, che decide quando il diritto di critica nei confronti delle toghe è stato superato e quando no, con l’ipocrisia ulteriore di non citare mai (né durante il dibattito né nella risoluzione finale) i presunti diffamatori con nome e cognome.
L’approvazione della pratica a tutela (strumento inventato dal Csm negli anni Ottanta senza alcuna base né costituzionale né legislativa) non determinerà comunque conseguenze pratiche, avendo una funzione meramente simbolica, ma di certo contribuirà a mantenere tesi i rapporti fra politica e magistratura.