A Milano la guerra culturale, economica e politica sulla casa è solo all’inizio

La questione casa resta una ferita aperta dopo che quindici anni di interventi di riqualificazione soprattutto nel centro di Milano avvenuti con capitali esteri e operazioni di finanza immobiliare hanno determinato un livello di prezzi che ha fatto esplodere la carenza di alloggi per studenti e di abitazioni accessibili.

Il via libera martedì sera da parte della commissione Ambiente della Camera al decreto legge Salva Milano riaccende le speranza di una soluzione “politica” al blocco dei cantieri nel capoluogo lombardo. Salvo imprevisti, il testo potrebbe essere approvato a stretto giro e a quel punto – siccome in sostanza ritiene corretto l’operato del Comune di Milano in campo urbanistico e smonta l’impianto accusatorio della procura sui permessi edilizi troppo facili – potrebbe rappresentare la via d’uscita all’impasse che da un anno paralizza lo sviluppo immobiliare della città e che ha generato la serrata dello sportello edilizia.

Al di là di come andrà a finire, poiché è tutto da verificare che il Salva Milano cancelli in un solo colpo una quindicina di indagini giudiziarie senza provocare un altro terremoto nei rapporti già tesi tra governo Meloni e giudici, il tema della casa a Milano, ma non solo, emerge da questa vicenda come la causa principale di un profondo e diffuso malcontento sociale con cui la politica dovrà fare i conti. Non è un caso che quasi tutte le inchieste siano partite da esposti dei comitati dei cittadini, in cui molto spesso la borghesia è ampiamente rappresentata. Sono stati questi comitati a denunciare il proliferare di immobili realizzati con permessi semplificati come le Scia dando vita a una forma di protesta diventata terreno fertile per l’azione della procura.

Quello che esce dall’interpretazione autentica della legge urbanistica di Milano all’esame del Parlamento è che il sindaco Beppe Sala e i suoi dirigenti e funzionari si sono mossi all’interno (non al di fuori) di un quadro normativo che ha consentito ai costruttori di edificare palazzi superiori a 25 metri di altezza e con un indice di cubatura superiore a 3, senza ricorrere a iter autorizzativi più complesse come i piani attuativi. Insomma, Sala, che ha sempre rivendicato che a Milano non c’era nulla da sanare o da salvare, avrebbe ragione alla luce del provvedimento licenziato dalla commissione Ambiente, salvo modifiche che potrebbe subire nel nell’iter di approvazione finale. Ma se anche fosse così, la questione casa resta una ferita aperta dopo che quindici anni di interventi di riqualificazione soprattutto nel centro di Milano avvenuti con capitali esteri e operazioni di finanza immobiliare hanno determinato un livello di prezzi che ha fatto esplodere la carenza di alloggi per studenti e di abitazioni accessibili. Questo ha generato rabbia nelle classi più disagiate ma anche nella ceto medio, in tutto un retroterra sociale e culturale e finanche in alcuni ambienti accademici.

Per la verità, il primo a rendersene conto è stato proprio il sindaco Sala, che ha voluto come assessore alla Casa un avvocato d’affari di estrazione cattolica come Guido Bardelli, il quale sta provando a dare una svolta con un piano che promette di realizzare 10 mila abitazioni a prezzi calmierati su 21 aree di proprietà del Comune. Insomma, Palazzo Marino si è portato avanti aprendo di fatto una nuova èra immobiliare milanese in cui d’ora in poi si dovrebbero vedere meno grandi fondi esteri e più cooperative edilizie (bianche e rosse) perché, in teoria, sono le uniche che, per statuto, hanno minori attese di profitto. Una sorta di compromesso sociale ed economico per tornare a rendere Milano “abbordabile”, come auspicano i due professori del Politecnico di Milano, Massimo Bricocoli e Marco Preverini, nel libro “Milano per chi?”. Il Leitmotiv è il seguente: se la città è attrattiva, è sempre meno abbordabile. Per Bricocoli e Preverini, la deregolamentazione edilizia è andata di pari passo allo sviluppo di un mercato immobiliare slegato dall’andamento dei redditi. E il successo internazionale che la città ha avuto dal 2015 in poi è stato raccontato “da quel blocco sociale e politico che misura il successo di una città e della sua amministrazione in corrispondenza della crescita dei valori immobiliari e della capacità di attrarre capitali e risorse”.

Il processo che si è messo in moto avrebbe trasformato Milano da città attrattiva a città che espelle. Chi? La borghesia del lavoro e delle professioni, che prima ne rappresentava l’anima. Di certo, questo pensiero meriterebbe una riflessione, come auspicano gli autori che hanno anche fondato l’Oca, un nuovo Osservatorio sulla casa “abbordabile” in collaborazione con le Acli milanesi, altro ambito in cui l’urbanistica di Milano è da tempo guardata con occhio critico. Però bisognerebbe anche spiegare meglio quale sarebbe stata l’alternativa per Milano che negli anni che hanno preceduto l’Expo 2015 veniva descritta dal Financial Times come “la Cenerentola d’Europa” e che nel 2015 il New Times classificava tra le prime 50 città al mondo. Milano e la giunta di Sala hanno fatto una scelta e su quella hanno fondato anche buona parte del bilancio grazie a oneri di urbanizzazione che nessuna città d’Italia è stata in grado di incassare e che sono stati spesi per i servizi ai cittadini, trasporto e welfare. E adesso che all’appello mancano 100-120 milioni di oneri a causa del blocco dei cantieri, l’impatto sui conti del Comune si comincia a sentire. Nel 2024 il bilancio di previsione ha previsto 76 milioni poi scesi a 57 con l’assestamento. Adesso, il conto previsionale del 2025 ne ha previsti 53, ma già si sa che saranno diversi di meno in fase di assestamento, sempre che i cantieri non si sblocchino e i soldi continuino a fluire nelle casse di Palazzo Marino anche in futuro, quando al posto di Sala ci sarà un nuovo sindaco.

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