Un turista in Africa

La recensione del libro di Evelyn Waugh edito da Adelphi, 196 pp., 14 euro

“Dichiaro, e con compiacimento, che a cinquantacinque anni mi trovo nella stagione della vita in cui devo svernare all’estero, anche se a dire il vero è uno stadio che ho raggiunto trent’anni fa”. Evelyn Waugh nel 1958 parte per un viaggio e scrive questo diario – o ricordi in forma di diario – dove mette dentro tutto il suo caratteraccio così british, quell’acutezza così acida che se non fosse così brillante risulterebbe antipatica. E anche negli spostamenti per arrivare in Africa, si sofferma sull’analizzare tutto quello che vede, anche a Genova, città “infestata da pochi fantasmi illustri”, città “imponente e un po’ prosaica e in mezzo alle incomparabili ricchezze che vanta l’Italia, passa quasi inosservata. In un altro paese sarebbe il centro del piacere estetico”. Waugh è convinto che a cinquantacinque anni si è “troppo vecchi per la giungla, troppo giovani per le spiagge, meglio rinfrancarsi guardando gli altri che lavorano, che conducono un’esistenza molto diversa dalla nostra”. E così si va a Mombasa, Aden, Zanzibar, Dar-es-Salaam, e nelle due Rhodesie. C’è qualcosa di estremamente liberatorio, schiavi di un contemporaneo così intriso di anticolonialismo, di white guilt, nel leggere di mondi “esotici” – parola ormai entrata nella lista nera – con gli occhi di un tempo andato e dalla penna di un conservatore. Qualcosa, quasi, di piacevolmente peccaminoso. Questo anche perché se Waugh può avere a momenti un atteggiamento altezzoso verso i popoli che visita, in realtà non salva nessuno, come del resto non ha mai fatto nemmeno nei romanzi e nel giornalismo. I suoi compatrioti sono le prime vittime delle sue frecciate. Il “liberalismo ottocentesco”, dice, è la prima causa dello sgretolamento dell’impero a cui tanto tiene. Waugh si lamenta di tutto, degli acciacchi, dello stato del mondo, e va senza meta perché tanto ovunque c’è qualcosa che non va. Un vecchio brontolone capace di osservare pieghe storiche e folklorismi con spirito witty. Il Kilimangiaro sembra “una gobba di cammello innevata”. Pangani, “forse non sopravviverà a lungo. All’Africa moderna serve a poco. Perché “c’è solo bellezza fisica e anche quella di un livello basso: il pittoresco. Lasciamola a fare da bersaglio alle macchine fotografiche”. Waugh, che aveva già viaggiato nel continente decenni prima, vede i cambiamenti. Vede gli uomini bianchi impoveriti e vede la burocrazia che ha preso il potere su tutto, ma ci sono già gli uffici con l’aria condizionata. I funzionari bianchi vestiti da bambini, “ridicoli”, per Waugh sono un segno della decadenza del colonialista. E poi forti arabi settecenteschi e cattedrali costruite dai tedeschi, moschee e cimiteri, dervisci nonagenari che sembrano “un babbo natale nero”, vescovi attempati “in kimono azzurro” che si credono re del Tanganica. Un viaggio nel tempo più che in Africa. Traduzione di Stefano Manferlotti.

Evelyn Waugh


Un turista in Africa


Adelphi, 196 pp., 14 euro

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