Nell’azione della presidente del Consiglio si riconoscono il coraggio della resistenza e delle iniziative difficili. Non è poco
La politica estera e la collocazione internazionale dell’Italia sono materia riservata di chi guida il governo con la fiducia del Parlamento (e della Farnesina, in misura significativa ma minore). Dato come sta messo il mondo, con l’Europa a passo di lumaca e gli Stati Uniti a passo di carica, in direzioni divergenti sul fronte ucraino e russo, questa materia è oggi il primo criterio di giudizio sull’operato di un ministero. Contano ovviamente e molto anche la spesa pubblica, il fisco, il lavoro, il debito, le politiche dell’immigrazione legale e illegale, l’integrità della classe dirigente, i diritti costituzionali, la capacità riformatrice e trasformatrice, la disponibilità al dialogo e il tono generale del rapporto tra esecutivo e Parlamento. Ma, come hanno implicitamente riconosciuto due elder statesman come Prodi e Monti, chiedendo a sinistra e destra un patto per l’Unione europea centrato sulla rapida messa in opera del funzionamento politico della Commissione esecutiva di Bruxelles, senza ostracismi e giochetti faziosi, la politica estera e il ruolo internazionale del paese sono anche più importanti e in certi casi connotano il significato di tutto il resto.
Bisogna riconoscere “de core” che in questo campo decisivo Giorgia Meloni è impeccabile. Fronteggia con circospezione e la dovuta prudenza le mattane di un alleato chiassoso schierato sull’asse Putin-Trump e si sbarazza ogni giorno della sua possibile ipoteca. Ne prescinde, per dir così, anche in un momento di allarmante e rampante cavalcata mondiale dei temi autocratici e ultrapopulisti. Comprende la necessità di rispondere all’aggressività di Putin nella guerra di aggressione contro Kyiv con decisioni di estrema risorsa come quelle di Biden sulle armi a lungo raggio e sul loro impiego. Si dichiara fedele all’impostazione italiana, solidale con la difesa europea e occidentale in Ucraina, preannunciandone la continuità nell’anno che verrà, accada quel che accada a Washington dopo il 20 gennaio, data dell’inaugurazione della nuova presidenza.
Esclude, senza strafare nel giudicare la telefonata di Scholz, una ripresa di contatti immatura con la Russia. Entra con Polonia, Regno Unito, Germania, Spagna e Francia in un concerto di nazioni, il sestetto, che si propone come forza di interposizione contro la possibile prospettiva di un patto russo-americano sulla pelle di un paese europeo indipendente, dopo tre anni di una guerra costata un milione di morti. Meloni starebbe comoda nella classica posizione italiana di sempre, la strizzatina d’occhio al prepotente di turno, non solo il russo, il giro di valzer alle spalle del partner europeo, l’opportunità al ribasso da cogliere, la politica del piede di casa e del consenso d’opinione facile, invece sceglie con lungimiranza, si distanzia platealmente dall’amico ungherese e da quello slovacco, mette l’Italia in condizione di contare e pesare molto sulla scena europea e mondiale in una direzione di giustizia e di fraternità verso un popolo in lotta per la sua sopravvivenza contro un’ideologia revanscista e neoimperialista. In questo modo l’Italia di destra cosiddetta, in compagnia di due leader socialdemocratici (Starmer e Scholz) e di due liberali (Macron e Tusk), costruisce fondamenta solide per un ponte di ferro sullo stretto atlantico e per condizionare per il meglio le velleità di resa a discrezione, con il nome traditore della “pace senza giustizia”, che in tanti coltivano da una sponda all’altra dell’oceano. Nel frattempo il Pd elegge la tarquiniana Proietti a Perugia, flirta malizioso con lo spirito di Assisi, si riduce al rango di una organizzazione politica e propagandistica della provincia italiana inefficace e impotente. A Meloni bisogna riconoscere il coraggio della resistenza al facile e delle iniziative difficili, in politica estera senza protervia e con molta fiducia. Non è poco.