Trump ha scarnificato l’aggressione all’Ucraina fino a renderla una guerra locale da risolvere parlando con Putin il linguaggio comune della legge del più forte. Per fortuna ci sono gli ucraini, ingegnosi e geniali
Joe Biden vuole lasciarci in eredità la Terza guerra mondiale, ha detto Donald Jr., il figlio del prossimo presidente americano Donald Trump, inveendo contro la decisione dell’attuale Amministrazione di togliere, infine, le restrizioni all’utilizzo delle armi occidentali fornite all’Ucraina in territorio russo. Donald Jr. – che nella galassia mostruosa del trumpismo di lotta e ahinoi di governo si è intestato la battaglia antiucraina nella sua versione più viscida, cioè quella personale contro il presidente Volodymyr Zelensky – se la prende con “il complesso industriale militare” (tutto maiuscolo) che vuole lasciare a suo padre un mondo a pezzi e in guerra più che mai, e con la sua consueta ricchezza semantica conclude dicendo: “Imbecilli”. I politici e i commentatori che animano il mondo Maga hanno insistito sul punto: Biden e i militari lo fanno apposta, avvelenano i pozzi, vogliono rovinare tutto prima che arrivi il pacifista Trump. Evidentemente nella loro bolla informativa, che è certo grande come abbiamo visto dal risultato delle elezioni americane, ma non è certo esaustiva, non sono arrivate le notizie sui continui attacchi russi contro l’Ucraina, su quello a Kyiv di domenica mattina, una scarica di missili che la contraerea ucraina in affanno a causa delle forniture a singhiozzo non è riuscita a intercettare con la precisione di sempre, ma nemmeno la notizia del fatto che l’unico dialogo che ha aperto Mosca verso l’Ucraina negli ultimi mesi riguarda la protezione delle infrastrutture energetiche. Perché? Perché gli ucraini, utilizzando soltanto le proprie armi – che, essendo un popolo industrioso e geniale, sono all’avanguardia – sono riusciti a colpire certi obiettivi russi che hanno convinto il Cremlino a dover trovare qualche genere di salvaguardia. Donald Jr. è tanto pronto a dire a Zelensky che la sua “paghetta” sta per finire (pensate che mondo sarebbe se finisse la sua, di paghetta) quanto ottuso nel non comprendere che Mosca contempla il compromesso soltanto quando è costretta da una situazione di debolezza. Portare la guerra in territorio russo è stata l’unica arma di difesa ucraina nel 2024, un’idea nata a Kyiv nell’attesa di nuovi permessi e forniture occidentali, ma il trumpismo è impermeabile a questo genere di intuizioni.
Dopo mille giorni di guerra di Vladimir Putin all’Ucraina e a sessantadue giorni dall’insediamento di Trump alla Casa Bianca, il cambio di approccio nei confronti del conflitto è già qui. Al di là dei fondi stanziati per la difesa degli ucraini, al di là delle armi fornite e al di là delle premesse per un eventuale negoziato (è una serie di “al di là” enorme per gli ucraini), è tornata la dottrina realista a guidare l’America, con in più la variabile trumpiana la cui caratteristica prevalente è l’imprevedibilità (che in linea teorica è contraria al calcolo cinico che sottende alla realpolitik ma che in questo caso arriva dentro al pacchetto, come si dice). Per Trump, la guerra russa è una faccenda ucraina e tutt’al più europea, per contiguità geografica: non c’è più nulla di ideale e di valoriale, non è in corso un’aggressione al nostro modo di vivere e di pensare la convivenza sociale, economica, politica, non c’è un costrutto liberale e democratico, forgiato in decenni, da difendere. C’è un paese, la Russia, che ne vuole conquistare un altro, l’Ucraina, e poiché “gli imbecilli” ci hanno coinvolti tutti nella difesa del paese aggredito – era andata molto meglio, secondo questa logica, nel 2014, quando si erano lasciate impunite un’invasione, un’annessione, un’occupazione – ora bisogna sistemare i danni, dialogando con Putin con l’unico linguaggio che lui e Trump conoscono: quello della forza.
Biden parla di democrazia, indipendenza, libertà e quello per Mosca è esattamente il linguaggio del nemico. Putin non soltanto ha l’obiettivo di annichilire l’ambizione democratica dell’Ucraina, ma ha anche quello di sovvertire il sistema democratico occidentale, come dimostrano le tante ingerenze (finanziarie e di disinformazione) nei cicli elettorali occidentali: per questo un presidente americano come Biden che difende l’Ucraina anche per quel che rappresenta, cioè l’avamposto di un fronte libero e liberale, è un nemico con cui non si può nemmeno parlare. Trump invece comprende, proprio come il presidente russo, la legge del più forte, la logica della potenza e della sua restaurazione. Nel concetto cardine dell’idea trumpiana del suo paese e del mondo, Make America Great Again, c’è lo stesso tentativo putiniano di recuperare, con la guerra e la conquista, una dimensione del passato in cui non soltanto non c’era stata quella che il presidente russo definisce “l’umiliazione” del crollo dell’Unione sovietica, ma non c’era nemmeno stata la necessità di un confronto o di una convivenza, si viveva di blocchi contrapposti. Come è evidente le restaurazioni di Trump e di Putin non sono destinate a stare insieme, perché la legge è appunto “del più forte”, uno vince sull’altro, ma intanto due nostalgie si incontrano e, rimossa la questione valoriale, trovano di che parlarsi. O almeno così si prospetta, per ora c’è soltanto una telefonata che Trump dice di aver fatto e Putin dice di non aver ricevuto e ci sono molte aspettative da parte di chi crede che la rapacità realista sia un modo buono per governare il mondo riguardo al negoziato.
Sono invece certi i missili indefessi di Putin contro il popolo ucraino, la pragmatica preparazione di Zelensky che ignora Donald Jr. e pensa a come trattare con suo padre, e soprattutto gli ucraini, che da mille giorni si e ci difendono, piangono i loro morti e celebrano i loro eroi, come Natalia, una giovane maestra d’asilo che in cinque mesi ha imparato a usare i sistemi di difesa aerea portatili, che due giorni fa ha abbattuto il suo primo missile, e ha riso e ha pianto.