La lezione di Ivan Illich e l’autonomia zero dei nostri giovani

I coach per studenti, sempre più richiesti dalle famiglie americane, avverano la profezia sulle “professioni disabilitanti” introdotta dal sociologo austriaco nel 1975. Il problema però non sono i ragazzi, ma le aspettative degli adulti

Nel 1975 viene pubblicato Medical Nemesis – The Expropriation of Health, il testo in cui il sociologo Ivan Illich introduce per la prima volta il concetto di “professioni disabilitanti”. Una formula tanto efficace quanto inquietante per descrivere un fenomeno che all’epoca già emergeva nel settore sanitario e che Illich estenderà poi all’istruzione e ai rapporti comunitari. Il ragionamento di Illich – spesso volutamente iperbolico e non privo di spunti controversi – mette a fuoco alcune professioni moderne, in particolare quelle nei campi della salute, dell’educazione e dell’assistenza sociale, evidenziandone la tendenza a trasformarsi in strumenti di dipendenza piuttosto che di autonomia. Professioni, dunque, “disabilitanti” per chi le subisce: ancorano l’individuo a una rete di servizi, burocrazia e, soprattutto, a esperti esterni, come se senza il loro intervento non ci siano possibilità di miglioramento, assunzione di rischio o realizzazione personale.

La critica di Illich è ampia, sfaccettata, certo non esente da contraddizioni ma per alcuni aspetti sorprendentemente profetica. Prendiamo l’ambito educativo (provate a fare un giro tra scuole e famiglie per rendervene conto): a quasi cinquant’anni di distanza assistiamo a un proliferare di figure professionali che rispondono alla logica del supporto esterno a una sorta di “disabilità” assistita. L’ultima trovata è quella dell’executive function coach: una sorta di “allenatore” per la gestione e l’organizzazione dello studio, sempre più richiesto dalle famiglie americane, con un esborso economico non indifferente. Questi coach puntano su tre obiettivi chiave: memoria a breve termine, controllo degli impulsi e flessibilità cognitiva, ossia la capacità di pianificare e gestire attività multiple. In pratica, gli executive function coach insegnano agli studenti come suddividere i compiti in piccole unità, stimandone il tempo di esecuzione; elaborano programmi giornalieri scanditi in momenti ben distinti per studio, esercizio fisico, socializzazione e sonno; regolano persino l’uso degli strumenti tecnologici e dei social media.

La domanda per questa nuova figura di “personal trainer” della quotidianità scolastica è in vertiginosa crescita: se in un primo momento tali richieste provenivano solo da famiglie di studenti con difficoltà di apprendimento, ora sempre più genitori chiedono l’intervento dell’executive function coach anche per ragazzi senza alcun tipo di disturbo. Gli osservatori più attenti spiegano questa tendenza con l’aumento delle attività e degli stimoli a cui i giovani sono sottoposti, al punto da renderli incapaci di scegliere e gestire in autonomia la propria vita. Naturalmente, i coach seguono un protocollo e adottano strategie specifiche, apprese in corsi ad hoc. Le scuole cominciano a dotarsi di questi profili e le famiglie investono denaro, in attesa della prossima moda educativa, scaricando di fatto la genitorialità sempre più su altri.

Questa corsa all’“autonomia assistita” sembra un pendio senza fine. Il problema non sono tanto i ragazzi quanto, ancora una volta, gli adulti: piuttosto che lasciare spazio ai giovani, li pressano con aspettative crescenti, investendo in figure e curricoli iper-performanti. “Generazione ansiosa”, l’ha definita acutamente Jonathan Haidt nel suo celebre saggio, di recente pubblicato in Italia da Rizzoli. Scommettere sulla libertà dell’altro e sulla sua capacità di camminare con le proprie gambe è sempre più raro. Si preferisce la programmazione rigorosa, illudendosi che possa allontanare imprevisti e difficoltà. Più che accompagnare i ragazzi, cerchiamo forse di vivere al loro posto e questo non è educare, è alienare.

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