Da Israele forse genocida al boh sulle persecuzioni di Maduro. Così il Papa manda KO la diplomazia vaticana

A essere minata era innanzitutto la terzietà della diplomazia vaticana, che tanti successi aveva riscosso nei primi anni del pontificato bergogliano. La Santa Sede era talmente “terza” che si chiariva come non fosse in atto una mediazione nelle contese del mondo a pezzi, ma solo una “facilitazione”, appunto: apparecchiare il tavolo affinché le Parti si parlassero

Roma. Edith Bruck dice che il Papa ha usato la parola “genocidio” perché non sente il peso della frase che pronuncia e che per questo la pronuncia con troppa facilità. L’aveva già fatto un anno fa, quando ricevette in udienza privata un gruppo di palestinesi di Gaza. Uscendo dall’incontro, questi dissero che Francesco aveva chiaramente pronunciato la parola “genocidio”, con gli uffici della comunicazione vaticana che subito spiegavano che non risultava, rimandando a dichiarazioni precedenti di Bergoglio, assai più sfumate nel lessico usato. Avevano intuito le conseguenze. Stavolta la parola è messa nero su bianco nell’ennesimo libro che il Pontefice manda in stampa. Non è il tema principale, ma è evidente che l’attenzione si sposti su quel punto, nervo che più scoperto non potrebbe esserci.

Al di là delle disquisizioni storiche e giuridiche su cosa sia genocidio e cosa no, l’uso disinvolto di parole così definitive pone una serie di problemi che finiscono col minare l’autorevolezza stessa del Papa e dell’Istituzione che rappresenta, in questo caso la Santa Sede, la cui tradizionale diplomazia “terza” è da sempre considerata un modello (nonostante qualche insuccesso del passato, più o meno recente). Una diplomazia dotata di una specie di “superiorità morale”, che le deriva dalla sua stessa natura. Già da un anno le comunità ebraiche lamentano una posizione ambigua di Francesco (e del Vaticano) sul pogrom del 7 ottobre: l’hanno detto in tutti i modi e non solo tramite canali riservati. Il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, è arrivato a sostenere che il dialogo cattolico-ebraico ha fatto passi indietro notevoli, cancellando quanto di buono s’era faticosamente raggiunto dal Vaticano II in poi. Il cardinale Marc Ouellet, su questo giornale, poche settimane fa diceva di comprendere la posizione del rabbino, ma assicurava che “il Papa non ha trascurato il dialogo della Chiesa con l’ebraismo: sta cercando di intervenire per limitare i danni inevitabili senza schierarsi con una parte contro l’altra”. Chiedere però un’indagine su un possibile genocidio a Gaza significa già sposare la tesi di una delle parti in causa, di fatto schierandosi o mostrando quantomeno di nutrire dubbi. Perché il Papa, allora, non usa parole ugualmente forti sulla strage perpetrata da Hamas o per i missili che quotidianamente da decenni Hezbollah lancia su Israele? Perché il Papa, capo di uno stato sovrano e vicario di Cristo (quindi capo spirituale) deve intervenire su questioni politiche chiudendosi ogni spazio di possibile azione?

Sul conflitto russo-ucraino per anni s’è scritto e argomentato che Francesco non andava al di là di condanne soft per non precludersi futuribili possibilità di mediazione. Se avesse condannato pubblicamente Vladimir Putin, si diceva a ragione, dal Cremlino non avrebbero più neppure alzato la cornetta se dall’altra parte ci fosse stato il Papa. Poi certo, Francesco se n’è uscito con la frase sulla Nato abbaiante ai confini della Russia, implicitamente quindi dando un minimo di giustificazione alla frustrazione russa. Poi ha detto che quando uno vede che ha perso deve sapere alzare bandiera bianca (si è spiegato che non intendeva “resa”, ma insomma, a Kyiv non hanno trovato convincenti le precisazioni). Quindi, lo scorso agosto, dalla finestra del Palazzo apostolico, al termine di un Angelus, ha lanciato bordate contro il governo ucraino reo d’aver deliberato sul divieto d’attività della Chiesa ortodosssa legata a Mosca. E’ altrettanto vero che nei mesi del conflitto ha detto che “Putin non si ferma” e che Kirill non dovrebbe ridursi a fare il chierichetto del presidente russo. Ma insomma, il peso delle parole usate appare diverso. Con la Segreteria di stato che, tra un rumoroso silenzio e un chiarimento nelle sedi opportune ribadiva che Roma sta con l’Ucraina e che c’è un invaso e un invasore.

A essere minata era innanzitutto la terzietà della diplomazia vaticana, che tanti successi aveva riscosso nei primi anni del pontificato bergogliano: come non ricordare la facilitazione messa in atto dal Papa nell’intesa storica fra gli Stati Uniti e Cuba? E il riavvicinamento con il Patriarcato moscovita, culminato con l’abbraccio fra lui e Kirill all’Avana? La Santa Sede era talmente “terza” che si chiariva come non fosse in atto una mediazione nelle contese del mondo a pezzi, ma solo una “facilitazione”, appunto: apparecchiare il tavolo affinché le Parti si parlassero.


Poi però i due registri perseguiti da Francesco hanno preso il sopravvento, con sempre più evidenza. Il côté realista che punta all’intesa con Pechino ha fatto sì che nulla fosse detto rispetto alla repressione ordinata da Xi Jinping a Hong Kong, neanche quando finiva in carcere un cardinale novantenne reo di essere testimone delle violenze. Solo una mezza frase sugli uiguri, subito biasimata dai maggiorenti cinesi. Il resto, ogni volta che è possibile, è la ripetizione di quanto buono, onesto e saggio sia il popolo cinese. Sul Nicaragua, mentre due vescovi vengono arrestati e poi esiliati e il presidente della Conferenza episcopale prelevato dalla polizia e accompagnato alla frontiera solo per aver denunciato il chiasso che disturba la messa, poco più di nulla. Qualche appello, un pensiero domenicale, un invito alla preghiera. Anche qui, s’è detto che Ortega, il tiranno sandinista, altro non aspetta che il Papa parli per spingere ancora di più sul suo disegno di annientamento della Chiesa, torturando qualche prete in più, confiscando altri edifici di culto, mandando le turbas a picchiare il cardinale arcivescovo di Managua, come è già accaduto. Ma in questo prudente e diplomatico silenzio la situazione non è migliorata. Anzi, Ortega ha anche ringraziato Roma per l’aiuto nei negoziati che hanno portato all’espulsione dal paese il vescovo Rolando Álvarez, condannato a ventisei anni di galera, detenuto in un penitenziario di massima sicurezza e poi spedito in Vaticano con la consegna imperativa di non aprire bocca. Su Maduro, poi, il presidente che tra brogli e violenze disconosce il risultato elettorale voluto dal pueblo, poco più di un buffetto: interpellato in aereo, Francesco ha prima detto di non avere un’opinione al riguardo, salvo poi rimandare a un “messaggio dei vescovi” locali.

Sono esempi di come la prudenza diplomatica spesso lasci lo spazio a pregiudizi culturali e politici di Francesco, come s’è ben visto rispetto al conflitto russo-ucraino. L’auspicata indagine relativa all’ipotetico genocidio a Gaza è solo una frasetta fra le centinaia che compongono l’ultima fatica letteraria dell’anziano Pontefice argentino. Frasetta però destinata a incrinare ulteriormente i rapporti con lo stato d’Israele – prova ne è il comunicato via social dell’ambasciata di Tel Aviv presso la Santa Sede – e di compromettere in maniera importante il dialogo interreligioso con l’ebraismo. Ne valeva proprio la pena? Il tempo lo dirà.

  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.

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