Va bene Berlinguer, ma ora sul grande schermo vogliamo Pannella e Craxi, i dioscuri della sinistra che aveva (spesso) ragione. Ecco qualche suggerimento sparso per un film che nessuno girerà mai
Sì, va bene, ora e sempre Enrico Berlinguer. Grande e onesto combattente. Una lezione etica incarnata. L’impegno per la giustizia fatto persona e leggenda. Una limpidezza esemplare. E ora icona cinematografica, racconto di emozioni antiche, faro per le generazioni nuove ripiegate su sé stesse. Il compendio umano di com’era la sinistra. E di come dovrebbe essere, e si ostina a non ridiventare.
Però, data a Berlinguer e al Pci tutta la gratitudine dovute a una tradizione tanto importante della storia italiana, fatto e distribuito il film che lo santifica, si può dire alt, stop, pausa, fermiamoci qui con la messa cantata, e anche questo stop sempre a beneficio delle nuove generazioni ripiegate su sé stesse, eccetera eccetera? Ecco: la sinistra italiana, negli ultimi decenni del Novecento non è stata solo Enrico Berlinguer. Berlinguer non è stato il monopolista unico e solitario dell’impegno, della lotta disinteressata per un ideale, l’unico vero leader della sinistra come rimpiangiamo che sarebbe stata. No. Ci sono altri combattenti della sinistra sui cui invece è calata la ghigliottina della damnatio memoriae. C’era la sinistra di Bettino Craxi. C’era la sinistra di Marco Pannella. C’era la sinistra radical-socialista, minoritaria ma combattiva. Che spesso aveva ragione. Non aveva la romantica grandezza del torto, certo. Ma aveva ragione. E se dedicassimo qualche film ai due dioscuri della sinistra italiana che aveva ragione? Una storia emozionante, con tante luci e tante ombre, come si usa dire, piena di episodi sorprendenti, di intrecci avvincenti, di sentimenti incendiari. E a beneficio di qualche regista che volesse realizzare questa impresa impossibile, ecco qualche modestissimo appunto di sceneggiatura, solo qualche spunto, qualche suggerimento sparso per un film che nessuno girerà mai, anche se avrebbe già il titolo fatto: “Marco & Bettino”.
Che poi, breve ma doverosa digressione, due film sarebbero pure già usciti. Uno è l’eccellente “Hammamet” di Gianni Amelio, con Craxi che interpreta Favino (ah no, è il contrario). Ma è il Craxi esule, sconfitto, abbandonato, malato, leone ingabbiato, non il Craxi che risollevò le sorti del moribondo e oramai culturalmente subalterno socialismo italiano, quello spavaldo, con il gusto della sfida, con più di una punta di arroganza, forse accentuata dalla mole e dal senso di imponenza fisica che la stessa figura di Craxi emanava, come ha scritto in pagine memorabili Enzo Bettiza (glossa bibliografica per chi stenderà la sceneggiatura). E anche su Marco Pannella c’è un bellissimo docu-film di Mimmo Calopresti, “Romanzo radicale”, che restituisce con finezza la figura del protagonista assoluto delle battaglie radicali e libertarie in Italia. Però è la fusione delle due figure che manca, e non può che essere così. Ci vorrebbe davvero un bel filmone, che grondi politica e passione. Con “empatia”, come si dice adesso (tipo “resilienza”), ma senza retorica, senza angeli e santini.
Senza retorica, senza angeli e santini. Si potrebbe cominciare con il Craxi pupillo del Pietro Nenni autonomista. E la sua sfida agli sgherri di Pinochet, quando, dopo il golpe del 1973, si recò in Cile e stracciando i protocolli ufficiali volle andare a rendere omaggio alla tomba di Salvador Allende nel cimitero di Santa Ines. Un poliziotto gli intimò di andarsene: “Un altro passo e sparo”. Bella scena per un film, no? Ed è anche vera, vidimata. “Stacco”, come Crozza fa dire al suo Sorrentino. Si potrebbe riprendere con la vigorosa spinta impressa da Craxi perché andasse in porto nel ‘77 la coraggiosa Biennale del Dissenso voluta da Carlo Ripa di Meana, veementemente boicottata dagli intellettuali più vicini al Pci, da Luca Ronconi a Vittorio Gregotti, che infatti si dimetteranno in blocco dalla Biennale considerando inammissibile che fosse data la parola a figure di primo piano del dissenso culturale dell’est sovietizzato, da Andrej Sacharov a Josip Brodskij a Leszek Kolakowski (e del resto, per ricordare in un inciso in quale clima ci si muovesse, per conferire alla sceneggiatura un tono di sorpresa e di sconcerto, l’allora responsabile cultura del Pci Giorgio Napolitano sosteneva che Solgenitsin un po’ il Gulag se l’era andato a cercare).
Anche in questo caso: magari qualche asso della sceneggiatura potrebbe ricavare episodi memorabili, con tutti questi eccelsi nomi che perdono l’autocontrollo quando sono invitati, a ventuno anni dall’indimenticabile ‘56, i campioni della rivolta intellettuale anticomunista. E, visto che erano pure tempi di eurocomunismo, nel cuore degli anni Settanta, per questo film che non si farà mai sarebbe una manna: contrasti, bugie, ipocrisie, doppiezze, contraddizioni, tra il dire e il fare eccetera eccetera. Come avverrà qualche anno dopo, quando Craxi si darà da fare per il transito semiclandestino di un po’ di finanziamenti per la Solidarnosc di Lech Walesa: stava maturando lo “strappo” di Berlinguer con l’est sovietizzato, ma Craxi e Pannella l’avevano capito da un bel po’ di che pasta fossero fatti quei regimi. Oppure (ombra delle ombre) quando, mentre i terroristi palestinesi buttavano giù in mare dall’Achille Lauro un ebreo in carrozzella, Craxi si avventurò in un assurdo paragone tra Mazzini e Arafat. Stacco.
Senza retorica, senza angeli e santini. E dunque sulla questione denari, soldi, finanziamenti, in un bel film spettacolare e avvincente non può mancare neanche il ronzio alacre dei nugoli di funzionari che manovravano nella pancia e nelle tasche del partito di cui Craxi era leader indiscusso. Molto prepotenti, molto assertivi nelle loro richieste spesso più che esose, molto addestrati nell’idea che in presenza di elefanti superfinanziati come la Dc e il Pci occorresse bilanciare i conti, soprattutto in entrata. Tutto con i cravattoni annodati a strozzare il collo (indicazione per i costumisti), l’aria da nuovi potenti, in centro e in provincia. A questa accolita di “sbafatori” (termine coniato dalla scrittrice Camilla Baresani) Craxi non seppe dire di no, non seppe trattarli da “mariuoli” (copyright craxiano per il primo esponente che fece precipitare la slavina di Tangentopoli). E ne pagò le conseguenze: perché gli imprenditori che avevano conveniente familiarità con il sistema si preparavano al calcio dell’asino sul potente in caduta libera; perché con l’assalto squadristico al Raphael a suon di pietre e monetine (“ruba anche queste”) si inaugurò la triste stagione del populismo giudiziario, con le folle del nuovo Pds, della Lega e dei fascisti del Msi, saldate in un unico fronte pro linciaggio. Perché cominciò il malinconico viaggio verso l’esilio di Hammamet, ma qui il film deve finire perché è già uscito quello, indiscutibilmente bello, di Gianni Amelio. Stacco.
E sempre niente retorica, niente angeli e santini: però quei cartelli al collo della “Lega italiana per il divorzio” che Marco Pannella e la pattuglia radicale verso la fine degli anni Sessanta, quando la sinistra maggioritaria considerava i diritti civili come un lusso se non come un diversivo della lotta di classe, quando la stampa conformista era una fortezza chiusa e i divorzisti avevano nei giornali solo il sostegno di un settimanale come “Abc” (bollato come porno-soft” ed era invece una palestra di spirito libertario oramai estinto), particolare succulento per un film non noiosamente iper-politico. E l’invenzione di Radio Radicale, con zoom sulla notte di Radio Parolaccia nel cuore degli anni Ottanta, quando i microfoni aperti rivelarono un’Italia aggressiva, frustrata, spaccata. O le epiche discussioni alla nicotina con Massimo Bordin, che proprio non aveva nessun complesso di inferiorità verso il capo carismatico. Oppure quando nel Pci e dintorni si sprecavano le battute omofobe su di lui. E quando le buscavano forte e regolarmente i militanti radicali che davanti al Viminale volevano fregare sul tempo i militanti comunisti per occupare nella scheda il primo simbolo in alto a sinistra. E la propria pipì tracannata durante gli scioperi della sete e della fame. E l’epopea accanto a Enzo Tortora, e Domenico Modugno che cantava straziato dai postumi di un ictus. E la battaglia contro i reati d’opinione di origine fascista ma che oggi (che disperazione) vengono difesi dai retori dell’antifascismo. E a proposito di antifascismo, la partecipazione come ospite al congresso del Msi del 1982 quando Giorgio Almirante diceva “il fascismo è qui” e nelle polemiche furibonde che ne seguirono, l’appoggio di Leonardo Sciascia: “Trovo che tutto questo scandalo per il suo intervento al congresso del Movimento sociale italiano non ha ragione d’essere. Le cose che ha detto al congresso Pannella le dice da sempre, ed io sono perfettamente d’accordo con lui. La forza della democrazia sta nella capacità di convincere”. Gli sceneggiatori di un film impossibile ne avrebbero di materiale. Stacco.
Poi qualche problemino, e sempre niente retorica, niente angeli e santini. E infatti Giacinto Pannella da Teramo, detto Marco, aveva un ego smisurato e un po’ avrebbe voluto che di lui si facesse non un santino, ma proprio un santo vivente, magari con un Premio Nobel per la Pace (i discepoli smentiranno, perché smentiscono sempre ma è vero): ciò che animò e rafforzò ulteriormente la sua martellante campagna per la fame nel mondo. Aveva le sue prismatiche sfumature, Pannella. Si potrebbe ricordare che non era un banale pacifista ma un profeta gandhiano della non-violenza la cui lezione fondamentale è che la pace fa tutt’uno giammai con la resa, ma sempre con la giustizia e la libertà, altrimenti non è pace ma cimitero: il contrario di ciò che sostengono quelli che nel nome della pace chiedono all’Ucraina di alzare bandiera bianca con l’aggressore Putin. Faceva gran mostra del medaglione della pace, appeso al collo sopra il maglione a dolcevita nero sul corpo che si smagriva fino all’ossificazione durante gli scioperi della fame (per poi ingrassare a dismisura nei momenti di rilassamento alimentare). Ma quando i serbi rossobruni di Milosevic cominciarono a terrorizzare i popoli della Jugoslavia oramai smembrata, Pannella non esitò a recarsi vicino al campo di battaglia di Osijek dove si fronteggiavano le forze croate e quelle serbe indossando la mimetica dell’esercito croato. E invocò subito l’intervento militare dell’occidente per fermare la strage in Bosnia, con i cecchini serbi che martirizzavano Sarajevo cannoneggiandola senza tregua dalle colline. Non sarebbero belle scene di un film, se solo venisse scritta una buona sceneggiatura?
Oppure Pannella che si mobilitava per la triste sorte dei Montagnard, una comunità cristiana vietnamita sconosciuta al mondo e vessata dopo il 1975 dal nuovo governo di Hanoi. Senza Pannella, chi avrebbe saputo niente dei poveri Montagnard? Senza retorica, senza santini, però. Perché Pannella era troppo ingordo di referendum e per quella ingordigia i referendum, diventati routine, persero ogni attrattiva popolare. Perché Pannella si muoveva come un despota nella casa radicale che considerava sua, e piazzava e rimuoveva segretari a suo piacimento e non tollerava dissensi, lui che era il dissidente nato. Anche se il battagliero drappello radicale portato in Parlamento negli anni Settanta, con Gianfranco Spadaccia, Adele Faccio, Roberto Cicciomessere, il maestro sommo del garantismo Mauro Mellini, Adelaide Aglietta, Emma Bonino, Massimo Teodori dimostrava che in pochi ma determinati si poteva fare un casino gigantesco, anche se lontani dalle leve del potere. Però Pannella sapeva pagare di persona. Nella sua idea di disobbedienza civile, la volontaria e politicamente motivata violazione di una legge considerata ingiusta prevedeva e anche richiedeva imperiosamente la sanzione che quella violazione comportava. Fumava uno spinello in piazza contro la repressione delle “droghe leggere” (si chiamavano così, la sceneggiatura deve essere filologicamente esatta e senza anacronismi)? Voleva l’intervento della polizia: un po’ diverso dal piagnonismo di chi protesta se le conseguenze della sua disobbedienza sono diverse dalla pura e semplice, e comodissima, impunità. Stacco.
E poi la solitudine di Craxi e di Pannella: il senso della solitudine è sempre un ingrediente infallibile per un film che non sia pura propaganda. La solitudine di Craxi che non trovò accanto l’uomo che gli era stato vicino negli anni in cui si prodigava per le riforme istituzionali e quando sfidò la piazza per neutralizzare gli effetti inflazionistici della scala mobile. E quest’uomo era Giuliano Amato. E la solitudine di Pannella quando Toni Negri, considerato vittima del teorema del “7 aprile” sulle commistioni con il brigatismo rosso, se la svignò tradendo la fiducia del leader radicale che lo aveva voluto in Parlamento (assieme a Cicciolina: spunto pruriginoso per la sceneggiatura). Due solitudini che si troveranno affiancate e intrecciate negli anni della rivoluzione giudiziaria, in cui Marco & Bettino strinsero un’alleanza disperata e donchisciottesca. In un finale di partita, stavolta davvero senza retorica e senza santini. In un film che avrebbe un finale forse un po’ mesto, ma che risulterebbe pieno di colori e anche di entusiasmo. Un film con molti garofani rossi. E tante rose nel pugno. Stacco.