Il governatore della Banca d’Italia ha sottolineato quanto i dazi minacciati dal tycoon siano in realtà una tassa sui cittadini americani. Ma per scongiurare la frammentazione dell’economia globale serve puntare su informazione, innovazione, flessibilità e cooperazione internazionale
Donald Trump, il presidente eletto degli Stati Uniti che in campagna elettorale diceva che “dazio” è la parola più bella che esista, non è mai stato nominato ma il suo fantasma aleggiava nel Salone dei Partecipanti di Palazzo Koch. E il suo spirito era percepibile nelle parole del discorso che il governatore della Banca d’Italia, Fabio Panetta, ha tenuto sulla “frammentazione” del commercio internazionale nell’ambito della presidenza italiana del G7. Panetta è stato molto “americano” nel suo intervento, quasi a ricordare agli Stati Uniti i benefici della loro tradizione liberoscambista, partendo da uno dei suoi padri fondatori : “Due secoli fa, la casa di Thomas Jefferson era piena di vini e libri importati dall’Europa”, ma Jefferson poteva permettersi “i vini italiani e francesi” perché era molto ricco. Ora, invece, queste importazioni sono accessibili a tutti, dice Panetta, e per due fenomeni, uno tecnologico e uno politico: il progresso tecnico che ha ridotto i costi di trasporto e gli accordi multilaterali Gatt/Wto che hanno ridotto i dazi. A questo proposito, quasi ad avvisare l’amministrazione Trump sugli effetti controproducenti dell’innalzamento delle barriere, Panetta ha ricordato che “l’aumento dei dazi sulle importazioni negli Stati Uniti nel 2018 (il primo mandato di Trump, ndr) ha aumentato in modo significativo il prezzo dei beni importati: i dazi sono stati trasferiti integralmente sui consumatori”. Insomma, al contrario di ciò che sostiene Trump, i dazi sono una tassa sui cittadini americani.
L’altro elemento da considerare è che, a differenza dei tempi di Jefferson, che importava prodotti integralmente fatti in Europa, ora le catene del valore sono molto più complesse. Quasi rievocando il celebre racconto sulla “matita” del Nobel americano Milton Friedman, che mostrava come anche il prodotto più semplice fosse il risultato di input e scambi che coinvolgevano molte parti del mondo, Panetta fa l’esempio di un prodotto più complesso come l’iPhone: “E’ progettato negli Stati Uniti, il display proviene dalla Corea del Sud, i chip di memoria provengono dal Giappone, dalla Corea del Sud e da Taiwan e il tutto è assemblato in Cina”. Spezzare questa catena, insomma, danneggia tutti, mettendo sabbia in un ingranaggio come quello della globalizzazione che ha migliorato lo standard di vita in tantissime parti del mondo e trascinato centinia di milioni di persone fuori dalla povertà.
Naturalmente, dice il governatore, lo scenario attuale – dopo l’invasione della Russia in Ucraina con l’interruzione delle forniture energetiche e l’intensificarsi del confronto tecnologico con la Cina – l’interdipendenza è vista anche come un rischio per la sicurezza nazionale. E pertanto tutti gli operatori economici tengono in conto considerazioni geopolitiche e applicano strategie di de-risking, sostituendo fornitori cinesi con europei. “Ma la globalizzazione non è finita, sta cambiando la geografia del commercio”.
Ma come si affrontano i rischi della frammentazione? Innanzitutto “evitare l’illusione che il protezionismo sia la soluzione ai nostri problemi”, perché “dividere l’economia globale in blocchi rivali causerebbe più danni che benefici”. E soprattutto Panetta suggerisce una strategia basata su quattro pilastri: informazione (identificare e monitorare le vulnerabilità, ad esempio sulle materie prime critiche), innovazione (ricerca scientifica e sviluppo industriale), flessibilità (essere pronti ad adattarsi ai cambiamenti geopolitici) e cooperazione internazionale (lavorare per evitare una frammentazione globale, il cui costo può superare il 6 per cento del pil mondiale).
Naturalmente, se la cooperazione a livello globale diventa più difficile e rischiosa in un contesto di tensioni geopolitiche, a maggior ragione bisogna “rafforzare almeno la cooperazione tra paesi che la pensano allo stesso modo”. Pertanto, dice il governatore, “dovremmo rivitalizzare le discussioni sugli accordi commerciali e di investimento”. Il riferimento, qui, non riguarda più solo il protezionismo di Trump, ma anche quello dell’Europa che ormai ha tirato il freno a mano sui trade agreement. Ad esempio, l’accordo tra Ue e Mercosur è bloccato per il riflusso protezionista europeo, ma si tratta di un accordo di fondamentale importanza economica e anche geopolitica perché coinvolge un blocco di paesi del Sud America che, oltre a formare un grande mercato, è anche un giacimento di materie prime critiche.
La prossima settimana la presidente del Consiglio Giorgia Meloni sarà in Brasile per il G20, dove si parlerà anche di questi temi. Il messaggio liberoscambista di Panetta indica una strategia buona sia per placare gli istinti protezionisti di Trump, sia per coinvolgere nel blocco occidentale un pezzo di continente conteso con la Cina come il Sud America. Anche noi europei, però, dovremmo rinunciare alla tentazione protezionista.