Nevio Scala e la saggezza del contadino

“Il calcio è stata solo una parentesi tra il lavoro in vigna”. Intervista all’ex allenatore che rese grande il Parma. Una vita da mediano, poi da allenatore girovago senza confini

A Lozzo Atesino, dove sono nato, i miei genitori gestivano un’azienda agricola. Al di là del calcio, è stata, ed è rimasta, la mia vita”. Questa è la storia di un contadino galantuomo, prestato al grande calcio. Una vita da mediano, poi da allenatore girovago senza confini, e prima, in mezzo e dopo, la terra, l’olio, le vigne e il vino… “Davanti alla nostra casa c’era un giardino. È diventato un campo da calcio per dieci piccoli lozzesi, fratelli e cugini più di pallone che di sangue. La scuola, la parrocchia, il calcio, la fionda, la pesca nei ruscelli. A Lozzo non c’era altro. Avevo sette anni quando mia madre mi fece indossare per la prima volta la maglia del Milan che sarebbe rimasta, la squadra del cuore”.

Poi accade l’imprevedibile. Dalla vigna e dal campetto di famiglia il viaggio verso una carriera luminosa e senza fine…

“Qualcuno mi vide in giro per i paesi, fino a quando Nils Liedholm, dopo un provino a Milanello, suonò alla porta di casa mia per convincere i miei genitori. Avevo quindici anni e solo sogni per riempire la borsa. L’impatto non fu semplice. Venivo da un paesino dove non c’era quasi niente e mi ritrovavo catapultato in una realtà stracolma di cose sconosciute. Tre anni nel settore giovanile, sino a quando il Milan acquistò dalla Roma Sormani e Schnellinger e io rientrai, a pieno titolo nell’operazione. Il Presidente Franco Evangelisti e l’allenatore Oronzo Pugliese, che mi avevano visto giocare in un torneo, avrebbero voluto acquistare il mio cartellino, ma il Milan accettò solo di prestarmi per un anno. Con l’allenatore più vulcanico della storia bruciai le tappe, arrivando in fretta e furia a esordire in serie A. Era il 18 settembre 1966. Ricordo, come se fosse ieri, lo stadio straripante di entusiasmo. Roma batte Brescia 1 a 0. Ero un ragazzo neppure diciannovenne che entrava ufficialmente nel mondo dei sogni”.

Dalla Roma torna a Milanello…

“Sì e sono stati i due anni, in cui il Milan ha vinto scudetto e Coppa dei Campioni. Ho giocato poco, perché in quella squadra la concorrenza era sleale. C’era Giovanni Trapattoni e l’inarrivabile Gianni Rivera. Lo vedevo in allenamento fare delle cose quasi disumane, che in pochi hanno avuto la fortuna di ammirare dal vivo”.

Poi, la dirottano a Vicenza…

“Avevo conosciuto Janny a Sottomarina, dove era arrivata come turista dalla Germania. Ci siamo sposati negli unici tre giorni di ferie fra la Roma, il Milan e i Giochi del Mediterraneo, dove abbiamo vinto la medaglia d’oro. Rocco borbottò: ‘Il ragazzo è fresco di nozze e, quindi mandiamolo in prestito al Vicenza’. Janny è stata la mia vita. Abbiamo festeggiato 55 anni di matrimonio. E oggi la amo anche più di quando, vinti dalla passione, abbiamo deciso di unire i nostri destini”.

Dal Vicenza alla Fiorentina dove ritrova Liedholm e poi, a gentile richiesta di Helenio Herera, è stato sul punto di passare all’Inter…

“Sì, ma il Mago si ammalò e non se ne fece niente”.

Poi ha smesso di correre dietro agli avversari e si è seduto in panchina. Una seconda vita calcistica, forse ancora più gloriosa della prima…

“La vita assomiglia a un viaggio in treno, dove può capitare di mettere in fila tutta una serie di coincidenze fortunate. Quando ho smesso di giocare, ero convinto di tornare per sempre fra le vigne della mia azienda agricola, che avevo continuato a curare, anche da lontano, con la mente e con il cuore. La ruota del destino volle che mi occupassi del settore giovanile del Vicenza. Il nuovo mestiere mi conquistò subito e, dopo cinque anni di felice apprendistato, arrivò la chiamata della Reggina. Dalla C arrivammo quasi in Serie A, perdendo lo spareggio ai rigori contro la Cremonese di Gigi Simoni”.

La consacrazione arriva nel Parma più splendido di sempre. Una cavalcata trionfale. Un’indimenticabile epopea…

“Arrivammo in Serie A al primo colpo e ci rimasi altri sette anni, vincendo la Coppa Italia contro la Juventus, la Coppa delle Coppe contro l’Anversa con una città intera che aveva riempito Wembley, la Supercoppa europea con il Milan e la Coppa Uefa ancora contro la Juventus. Eravamo un gruppo unito, come non ne ho conosciuti altri. Sono rimasto affezionato a tutti. Anche a quelli che a mano a mano ho perso di vista. Gianfranco Zola rimane forse il più grande campione che ho allenato. Sono legato a lui da un filo indissolubile di stima professionale e di amicizia vera. Abbiamo fatto debuttare Gigi Buffon quando non aveva ancora compiuto diciassette anni. Prima di mandarlo in campo contro il Milan, ci siamo fatti mille domande. Chiesi all’allenatore dei portieri se lui vedeva le stesse cose che vedevo io. Mi rispose che era giovane, ma già un fenomeno. Abbiamo rischiato e lui fece un partitone”.

Da Callisto Tanzi a Luciano Gaucci. La musica trionfale diventa un disco rotto…

“È stato un passaggio complicato. Bellissima città, gente affettuosa, ma con un personaggio fuori da qualunque schema, come Gaucci, non si poteva lavorare e dopo sei mesi me ne andai. A semplificarmi il distacco, arrivò l’opportunità prestigiosa del Borussia Dortmund. Non ci pensai due volte e abbracciai di corsa la prima avventura europea. Per uno che era partito, con una valigia arrangiata alla bell’e meglio, dai mille abitanti di Lozzo e dal campetto di famiglia davanti casa, era il miraggio che mi trascinava dentro di sé. Un’annata da incorniciare, nonostante le difficoltà incontrate in campionato. Era una squadra che aveva vinto tutto e aveva con ogni evidenza la pancia piena, ma conquistammo comunque la Coppa Intercontinentale a Tokyo e raggiungemmo le semifinali di Champions. Poi, volai a Istanbul dove, pur fra infinite incomprensioni societarie, il Besiktas portò a casa la Coppa di Turchia”.

Poi arrivano le due nazioni che oggi, l’una contro l’altra armate, sono diventate il carnefice e la vittima di una guerra crudele…

“Mi si stringe il cuore a vedere quello che sta accadendo. Ho allenato prima in Ucraina, dove con lo Shaktar Donetsk abbiamo vinto il primo scudetto della loro storia e la Coppa nazionale. Quella città, che ora vive sotto l’incubo quotidiano delle bombe, mi è rimasta nel cuore”.

Poi, ha varcato il confine per allenare lo Spartak Mosca…

“Era all’epoca una società sull’orlo di una crisi di nervi. È stata una stagione tribolata. In un anno hanno cambiato tre presidenti. In compenso ho vissuto la città, che è bellissima, come un turista privilegiato, perché mi si aprivano porte, che per tutti gli altri erano sbarrate. È una guerra, che vivo con angoscia e incredulità, perché di quei luoghi conservo nel caleidoscopio della memoria solo immagini di vita e di splendore”.

Dal Cremlino e dai monasteri di Mosca ha intrapreso il viaggio a ritroso per risalire su un trattore e tornare fra le vigne a produrre un vino senza inganni come lei…

“Non mi sono mai staccato dall’azienda che porta il mio nome. È sempre rimasta la mia ragione di vita. Il calciatore e l’allenatore sono state due professioni, che mi hanno regalato un numero imprevedibile di soddisfazioni, ma forse quella che sto vivendo ora è quella più grande. Dal vino biologico siamo arrivati a quello naturale, che è stato come salire su un gradino ancora più alto. Il vino Scala dipende solo dal cielo, dalla pioggia e dall’aria. È una ragione a denominazione d’origine sentimentale, che va oltre ogni scopo di lucro. Oltretutto, è il collante che tiene stretta la mia famiglia. Mio figlio Sacha, che fa l’architetto, ha costruito la cantina. Claudio è il responsabile della produzione”.

È un mondo, che assomiglia in qualche modo al calcio di una volta…

“È proprio così. Nel mio calcio c’erano sentimenti e valori che il denaro ha ucciso. La tolleranza, il rispetto, l’amicizia, la stima reciproca e la felicità di correre o di veder correre gli altri dietro a un pallone si sono persi irrimediabilmente per strada e temo che non torneranno più. La grande bellezza del calcio, vista da qui, sembra in via di estinzione”.

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