In un decennio, gli istituti di credito italiani sono riusciti a scalare il vertice bancario europeo. Merito di una solidità patrimoniale capace di affrontare senza ansia il rischio di espandersi, contro ogni popular-sovranismo
Bpm si candida a diventare il terzo polo con il controllo di Mps; Unicredit grazie a profitti record scala la Commerzbank e vuol diventare la numero uno in Europa; Intesa Sanpaolo, la banca di sistema, capitalizza ormai 70 miliardi di euro, superando sia Bnp Paribas sia il Santander e più che doppiando la Deutsche Bank. Che cosa è successo, come hanno fatto a scalare il vertice bancario europeo? Ricavi, redditività, patrimonio: la sequenza è una formula apparentemente semplice, ma per metterla insieme ci è voluto un decennio. Anche in questo caso le scuole di pensiero si dividono, c’è chi pensa che bisogna partire dalla fine: il rafforzamento del patrimonio sotto la frusta della Bce è la molla che ha consentito di espandere i ricavi e aumentare i rendimenti. Altri guardano alle banche come imprese e privilegiano la profonda trasformazione della loro attività ben oltre quella tradizionale dei prestiti alla clientela, sempre più verso la gestione dei patrimoni e gli interventi nel grande mercato finanziario. La solidità patrimoniale è comunque un fattore importante che distingue le banche italiane anche dalle concorrenti europee e consente loro di affrontare senza ansia gli eventuali rischi collegati alla espansione dell’attività anche in territori finanziari meno battuti. Bisogna aggiungere poi la spinta venuta dalla politica monetaria.
Prima della pandemia la discesa dei tassi fin sotto zero insieme all’acquisto dei titoli di stato ad alto rischio da parte della Bce ha fornito liquidità spingendo le banche italiane a cambiare modello allegerendosi dal fardello di Bot, Cct, Btp. Ciò ha allargato lo spazio di manovra per smaltire i crediti marci ormai inesigibili e ripulire i bilanci. Quindi, la svolta monetaria di Draghi è stata determinante. Quando poi i tassi d’interesse sono saliti per combattere l’inflazione, è scattata anche la molla tradizionale, cioè il margine d’intermediazione sui prestiti, ovvero la differenza tra tassi attivi e passivi. In questo modo è stato superato anche lo choc della pandemia durante la quale le banche hanno fatto da agenti pagatori per conto dello stato, anticipando la liquidità e consentendo così all’economia di funzionare anche se a basso regime e alle famiglie di tirare avanti.
Il governatore Fabio Panetta sia alla Banca d’Italia sia alla Bce ha seguito con particolare attenzione il sistema bancario italiano e dell’Eurolandia. “I progressi reddituali e patrimoniali riflettono un percorso pluriennale di recupero di efficienza e di rafforzamento dei bilanci. La solida condizione in cui si trovano oggi gli intermediari rappresenta un punto di forza per l’intera economia italiana”. La politica, però, sembra non averlo capito e non perde occasione per punire le banche: troppi profitti è l’accusa dei populisti. La retorica sui bankster copre la vera paura: troppo potere, le banche siedono su una montagna di denaro, mentre il governo non sa dove sbattare la testa. Così torna la pressione affinché siano le banche a farsi carico del debito pubblico. Il 2023 è stato l’anno dei record e anche il 2024 segna nuovi successi: l’utile netto dovrebbe arrivare a 26 miliardi di euro. La (non) tassa sugli extraprofitti (è in realtà un prestito), dovrebbe portare nelle casse del Tesoro 4 miliardi in due anni, una boccata di liquidità da restituire. Tanto rumore per nulla? Sì, ma il rumore per lo più cacofonico è la colonna sonora del popular-sovranismo.