“Nessuno sa che cosa dire ma siccome ci sono le elezioni e si teme un forte astensionismo l’importante è mobilitare”. Parla il direttore della rivista “Il Mulino”
Le piazze contrapposte di Bologna, i disordini, il reciproco spauracchio del nemico, il voto regionale che si avvicina e un lessico sloganistico e tranchant che rimanda ad altre stagioni (le “zecche rosse” evocate dal vicepremier Matteo Salvini e le “camicie nere” evocate dal sindaco pd Matteo Lepore): non si starà indulgendo in tic triti e ritriti, in un momento in cui la semplificazione contribuisce ad aumentare il caos, visti anche i fatti di Amsterdam e l’ombra dell’antisemitismo che si allunga potenzialmente su altre manifestazioni, studentesche e non? C’è pericolo di un ulteriore avvitamento? Ne parliamo con lo storico e politologo Paolo Pombeni, professore emerito all’Università di Bologna e direttore della rivista Il Mulino. Chi governa – un paese o una città – ha responsabilità anche nella parola, e Bologna è una città simbolo. “Noto da un po’ di tempo, in generale, questa mania, accentuatasi in generale dopo la vittoria di Donald Trump negli Stati Uniti”, dice Pombeni, “secondo la quale la radicalizzazione porta bene. Tutti fanno a gara, a destra e a sinistra, a chi la spara più grossa. Di conseguenza, il linguaggio finisce per essere liturgico, fatto di formule sempre uguali, da una parte e dall’altra. Non si riesce a spiegarsi e a descrivere una realtà complessa. Dopodiché non c’è dubbio: la situazione a Bologna è stata gestita con i piedi da tutte le parti”. Da un lato, dice Pombeni, “in prefettura potevano immaginare che il fatto di consentire lo svolgimento in centro del corteo dei Patrioti e di Casapound, in una fase pre-elettorale, significasse aprire un fronte provocatorio, e non è che i convenuti stessero manifestando per il bene della patria, in nome della ‘sicurezza’ e con il tricolore, anzi. Dall’altra parte, però, a sinistra, era ed è necessario prendere le distanze dalle frange estremiste. Ci sono le immagini: non si trattava di manifestazione pacifica, in piazza c’era gente con bastoni e spranghe. Nessuno è cieco”.
Ma perché c’è questa difficoltà? “Il problema è sempre lo stesso. Siccome ci sono le elezioni, e si teme un forte astensionismo, l’importante è mobilitare. Mi viene in mente un volume uscito in tedesco molto tempo fa, sugli anni Trenta dell’Ottocento, ‘La mania della rivolta’. Si descriveva un momento storico in cui nessuno sapeva bene che cosa fare – e allora si faceva casino. Un clima simile a quello di oggi, molto pericoloso perché non si riesce a indirizzare in maniera positiva le preoccupazioni esistenti: per esempio la sicurezza, il caro-affitti per gli studenti. Problemi reali, ma bisognerebbe dire che non è facendo a botte per strada che si risolve qualcosa”.
Anche a proposito di politica estera si assiste a una simile semplificazione e polarizzazione. “Ormai non si sa più che cosa dire, perché è venuto meno il valore della riflessione politica”, dice Pombeni, “e le parole non sono più parole, sono diventate armi contundenti. Si usano le più banali, anche non pensate, e si crede siano l’unica cosa che la gente capisce. Si fa leva sul riflesso di Pavlov: se dico questa cosa, quello reagisce così o colà”. C’è un antidoto? “Purtroppo il mondo della comunicazione ha grandissime responsabilità. E’ in crisi – giornali sempre meno letti, tv sempre meno vista — e allora, in un circolo vizioso, si presta alla commedia delle maschere, Pantalone contro Pulcinella, pensando che faccia impennare vendite e ascolti. Invece è questo il momento di rompere lo schema”. Si guarda in modo troppo ipnotico alla pancia del web, ci si trincera troppo dietro il pensiero auto-assolutorio dei “giovani schiavi dei social”? “Da giovane è normale voler essere protagonista. Ma se tu lanci il messaggio che l’unico modo per essere protagonista è schierarti da uno dei due lati in modo acritico, ottieni due modelli di comportamento ugualmente negativi. Abbiamo perso tutti i canali intermedi: i partiti, l’Azione cattolica, i gruppi culturali, tutte realtà dove ci si poteva esprimere da protagonisti in modo diverso. Ora non c’è più nulla, e la gente si butta dove può”. Per paura del futuro? Per ignoranza? “Si parte dall’idea di voler essere dalla parte del più debole, cosa che in sé sarebbe anche positiva. Solo che poi scatta una manipolazione enorme, tanto che si finisce per manifestare a favore di matti e oppressori. Faccio un esempio che mi riguarda, con il senno di poi: da ragazzo, come tanti della mia generazione, sono sceso in piazza, ai tempi della guerra del Vietnam, dalla parte dei Vietcong. Ma non è che poi i Vietcong abbiano messo in piedi una democrazia meravigliosa. Ecco, la storia è fatta di sfumature e complessità”.